Shōgun, la recensione della serie di Disney+

TAKUMI - Shōgun - Disney plus

Siamo agli inizi del 1600. L’Erasmu, un mercantile olandese armato da guerra, in seguito a una tempesta naufraga sulle coste giapponesi presso un piccolo villaggio di pescatori chiamato Anjiro. Sulla nave si trovano il capitano, il pilota inglese John Blackthorne e i superstiti dell’equipaggio duramente provati dalla fame e dalla sete.

Grazie al proprio coraggio e intelligenza, Blackthorne riuscirà a sopravvivere e adattarsi a un mondo completamente nuovo, dominato dagli intrighi e giochi di potere tra Ishido e Toranaga (che prende Blackthorne sotto la sua protezione, intuendone le potenzialità), i due daimyō più potenti del Giappone. Mentre Blackthorne serve sotto il suo signore fa la conoscenza di Mariko, la sua traduttrice e istitutrice per la quale nutre un disperato ed impossibile amore.

Lei è la sua guida nella comprensione dei costumi e della lingua del Giappone feudale e lui si rivelerà uno studente eccezionalmente rapido tanto che in breve tempo si adatta alla nuova realtà. Intanto Toranaga si trova in una situazione scomoda dal momento che i più potenti signori feudali giapponesi si stanno alleando contro di lui. Inoltre il suo fratellastro Zataki, signore della provincia di Shinano minaccia di schierarsi apertamente dalla parte dei suoi nemici.

Questa la trama generale del romanzo di James Clavell appartenente alla cosiddetta “Saga Asiatica” di cui sono altrettanti celebri i romanzi Tai-Pan e Gai-Jin. Romanzo non esente da alcuni errori storici, ma che riesce a ricostruire molto bene le atmosfere e lo scontro ideologico che ci poteva essere tra un occidentale e il mondo giapponese oltre agli intrighi di potere e dei cattolici portoghesi giunti nel luogo più per questioni economiche e di commercio che di un vero credo spirituale.

Il romanzo si ispira alle gesta di Tokugawa Ieyasu (nella finzione Yoshi Toranaga) e alla storia di William Adams, conosciuto anche come Miura Anjin, ovvero, nel romanzo, John Blackthorne.

TAKUMI - James Clavell - Shōgun

Nel 1980 il romanzo ha una sua prima incarnazione televisiva in una serie di 5 puntate con Richard Chamberlain, Toshirō Mifune e Yoko Shimada, che poi sarà “riassunta” successivamente in un adattamento cinematografico.

La serie ebbe molto successo ed era davvero ben realizzata, anche se sarebbe stata superata dalla sua successiva incarnazione, disponibile ora in Italia su Disney+.

Già il numero delle puntate è il doppio della precedente, riuscendo a dare un maggior respiro alla storia creata da Clavell nel suo romanzo fiume, ma soprattutto è meno “patinata” della serie degli anni ’80.

Cosmo Jarvis appare più frastornato e rozzo (anche fisicamente) rispetto a Chamberlain, rendendo meglio la figura del marinaio di ventura scaltro e coraggioso, ma nello stesso tempo goffo e maldestro. Seguendo le sue gesta siamo noi stessi gli occidentali che esplorano, spesso accettando senza capirlo, un mondo estremamente alieno dal nostro, ricco di suggestioni nei suoi contrasti tra raffinatezza e crudeltà.

La nuova serie, salvo pochissimi dialoghi tra i personaggi occidentali, è tutto in giapponese (naturalmente sottotitolato) a dare maggiore sensazione di quanto uno straniero potesse sentirsi isolato e spaesato in quel contesto.

La serie, oltre alla trama piuttosto avvincente, ha il pregio di un’accuratezza di dettagli non indifferenti sia di dialogo sia di aspetto visivo. Già in una delle prime puntate Lady Mariko chiarisce al protagonista cosa dovrà accettare del mondo giapponese: “Fin da bambini noi impariamo a scomparire dentro noi stessi, a erigere mura inviolabili dietro cui viviamo quando ne abbiamo bisogno. Dovrete addestrare voi stesso ad ascoltare senza sentire. Per esempio potete ascoltare il suono di fiori che cadono o di rocce che crescono. Se davvero ascoltate allora, di sicuro, il presente svanisce. Non fatevi incantare dalla nostra amabilità, dai nostri inchini o dai cerimoniali. Sotto a questo possiamo trovarci a grande distanza. Soli e sicuri.”

Quello che probabilmente colpisce maggiormente Blackthorne è la facilità con cui in Giappone si comanda, e si accetta, la morte. Esemplificativo in questo contesto è sia la morte del giardiniere di casa sua, sia quello che ancora una volta la saggia, e affascinante, Lady Mariko gli insegna: “Accettare la morte non significa arrendersi. I fiori sono tali solo perché appassiscono.”

Le immagini della vita quotidiana e di corte, e i relativi abiti, sono perfette come è altrettanto ben resa l’atmosfera di una Casa del tè e le abilità delle cortigiane, ma la scena che probabilmente affascina chi studia la cultura giapponese è quella relativa al cha no yu che il marito di Lady Mariko, Toda “Buntaro” Hirokatsu, le offre in un tentativo di riavvicinarla a sé.

Già dall’ingresso basso e stretto della sala in cui si svolgerà la cerimonia comprendiamo la precisione e l’esattezza che si ha in questa miniserie, ma è la sua estetica, che ricorda quella del Sekkatei (presso il Kinkakuji) e l’attenzione al tokonoma che danno il colpo finale.

La cura nella posizione del chabana (per un approfondimento sul tema rimando al libro di Roberta Santagostino edito da Jouvence), la luce che arriva ad illuminare il tokonoma (e qui è necessario citare Libro d’ombra di Jun’ichiro Tanizaki) e la gestualità della cerimonia sono emozionanti come il dialogo tra i due coniugi in una formale e dolorosa poesia.

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