Qualche anno fa stavo invitando degli amici a prendere parte ad una classe di yoga in campagna, una bella occasione secondo me per stare insieme con quel pizzico di convivialità che fa sempre tanto piacere a persone che condividono gli stessi interessi.
La risposta di uno di loro risuonò enorme alle mie orecchie tanto che a distanza di anni ancora mi capita di pensarci. Mi disse che declinava l’invito perché si sentiva troppo occidentale e troppo felice per lasciarsi sedurre da discipline come lo yoga. Se non l’avessi conosciuto avrei messo semplicemente una “X” di rifiuto sul taccuino.
Poiché invece ne ho grande stima intellettuale, la sua risposta mi portò a ricercare la riflessione che, come è evidente, continua ancora oggi. Felicità, felicità, sono troppo felice per questo… sono le parole che mi continuano a frullare in testa.
Che strano che si pensi allo yoga come una cura per l’infelicità. Forse perché negli ultimi anni molti medici e psicoterapeuti consigliano di praticarlo, oppure perché il bombardamento visivo di persone sedute nella posizione del loto riconduce all’idea di una mente esausta che necessita di ristoro?
Mettendo in campo – come al solito – la mia esperienza personale, devo dire che non ho iniziato a praticare yoga perché mi sentivo infelice, ma sicuramente ho continuato a farlo perché mi divertivo moltissimo. In questo senso sì, allora il mio amico avrebbe ragione, lo yoga mi ha reso più felice.
Per chi non è mai salito su un tappetino e non ha sperimentato il silenzio interiore che porta la pratica, la mente quieta concentrata esclusivamente sull’azione del momento, il respiro che man mano si espande in tutto il corpo, il suono sordo del battito del cuore che lentamente emerge, è difficile comprendere perché col tempo non si possa fare a meno della propria pratica.
Sì, lo ripeto, mi diverto. La pratica delle posizioni (asana) in particolare mi fa sorridere e a volte ridere anche di me stessa.
Il processo di apprendimento è la parte che preferisco: è una sfida che deve essere portata avanti ad armi pari posizione più avanzata insieme a maggiore consapevolezza di sé e del corpo ovviamente.
Se non si rispetta questo rapporto la cosa non funziona. E allora sorrido ogni volta che provo e non va come dovrebbe (o come vorrei), che penso di aver capito come si fa e sì la mente ha capito, ma il corpo ancora non la segue. Ogni volta che mi accorgo di cercare una scorciatoia per poi chiedermi “a che serve?” e torno indietro e ricomincio daccapo.
Una pratica in cui si può ridere e ridere di sé, si può piangere, si può riflettere e ovviamente si può imparare, tutto stendendo solo un tappetino.
Ed ancora, sì, non l’ho fatto perché non ero felice abbastanza, ma l’ho fatto perché fatto la prima volta non ne potevo più fare a meno, perché la mia curiosità era stata sguinzagliata, perché la porta su di me era stata spalancata e tra paura e sorpresa non conoscevo un miglior modo per scoprirla.
Da quando ho iniziato lo yoga è stato con me sempre, in forme discrete e silenziose o con grandi exploit pubblici. Nel silenzio dei ritagli di spazio delle stanze dove mi trovavo in viaggio o in grandi sale col pavimento in legno insieme ad altre persone.
Nei momenti sereni, magari in vacanza, quando la pratica è fluida e il sole caldo spezza i limiti del corpo dopo l’inverno, e nei momenti più duri e indecifrabili quando dopo un improvviso tifone senza acqua né luce stesi il tappetino sperando di sentirmi per un po’ a casa.
Forse il mio amico aveva ragione, non mi sento abbastanza occidentale o forse volevo essere più felice quando ho iniziato. Dopo questi nove intensi anni di yoga penso che se mi fossi data una definizione allora, ora non sarei qui scrivendo questo.
Ci viene data una chance in più alle volte e sono felice di averla colta quella volta e rispetto chi ha scelto diversamente da me. Più che definirsi forse conta sentirsi nel posto giusto facendo la cosa giusta. A poco invece contano il contorno, i commenti o le persone.
Ogni volta che medito nel silenzio della mia mente, che recito mantra non sempre intonati, che entro in una posizione e sento il mio respiro, o che non la mantengo e anziché arrabbiarmi o scoraggiarmi sorrido dentro di me, sono grata perché sento che questo mi rende più che felice, mi rende libera.
in copertina “gli inseparabili compagni di viaggio” – foto di Elena Cerasuolo
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