Da quando la vita mi ha portato a studiare ed apprezzare la cultura giapponese ho sentito la necessità di approfondire la mia conoscenza della pittura in oriente e sono stata attratta dalla tecnica del Sumi-e. Un modo di pitturare che è una meditazione, non c’è modo di fare correzioni, si deve lasciar fluire la pennellata dalla nostra anima alla carta. Complicato per me capire inizialmente la filosofia zen del Sumi-e, ho sempre dipinto con tecniche come le tempere o la pittura ad olio su porcellana, ma ho incontrato un maestro eccellente.
A Roma il Sumi-e è legato fortemente alla figura di Massimo Gobbi ed io ho avuto la possibilità di seguire i suoi corsi per due anni, ma in realtà mi considero ancora una sua allieva che spesso sente nostalgia dei pomeriggi passati immersa nella pittura e torna saltuariamente a scuola.
Massimo Gobbi è un artista poliedrico ed esperto di varie tecniche. È sempre estremamente moderno ed originale nelle sue opere. Nel suo metodo di insegnamento porta la sua personalità raffinata e colta, ma a tratti goliardica e vivace. Un rappresentante del Takumi che riesce a trasmettere la sua arte sempre con passione e curiosità giovanile.
Come è stato il tuo incontro con la cultura orientale? Quale è stato il momento della tua vita in cui hai incontrato l’arte orientale per la prima volta?
Frequentando la Facoltà di Architettura, a via Gramsci, nella seconda metà degli anni sessanta (!) mi sono trovato dirimpettaio dell’Istituto Giapponese di Cultura appena costruito, non del tutto, lo stavano terminando. Incominciai a frequentarne la Biblioteca con piacere. Credo di avere forse una delle tessere attive più remote, numero 266! Era un luogo del tutto tranquillo e accessibile. Non c’era ancora, come oggi, un’attività culturale di mostre conferenze film: Si poteva sostare a leggere o studiare anche nella sala in alto, di fronte all’auditorium, alla luce filtrata dagli shoji con moquette divani e bei tavoli. Così ho cominciato a consultare libri molto diversi: architettura ma anche arte giapponese artigianato, incastri geniali del legno, utilizzo del bambù, ikebana, shōdō, la realizzazione della carta washi e i suoi impieghi più disparati, e via dicendo. Mi è sorta una curiosità per un mondo suggestivo diverso enigmatico.
Come è nato il tuo interesse per la pittura sumi-e?
Avevo al Liceo una curiosità, un po’ confusa… per il mondo Zen. A quei tempi i libri tradotti sull’argomento erano pochissimi. Erano soprattutto testi classici, anche mal tradotti e quasi sempre da altre traduzioni inglesi o tedesche, mai dagli originali.
Qualche anno più tardi ho avuto contatto intenso con il mondo del buddhismo zen Sōtō, un momento pioneristico in Italia che avrà poi uno sviluppo variegato. Da qui vengono nome e sigillo con cui firmo, ma questa è un’altra storia….
All’Istituto Giapponese cominciai a vedere “le immagini”. Tantissimi libri su tutto il mondo dell’arte e dell’artigianato giapponese. Non credo di aver visto molto prima di allora e quando ho scoperto i dipinti con inchiostro nero è stata una folgorazione. Si dice così? Erano immagini talmente forti incisive dirette poetiche, impressionanti insomma. Soprattutto diverse da quelle ‘a colori’ apprese nello studio scolastico della storia dell’arte occidentale, a parte incisioni e fotografie naturalmente, che a quei tempi era molto eurocentrico o quantomeno molto occidentale. Poi alla fine degli anni ’70 c’è stato un amico, insegnante di arti marziali, che mi parlò di uno studio a Roma dove Ikuyo Toba e Sho Chiba, una coppia di artisti giapponesi insegnavano nel loro studio a via Luisa di Savoia. E lei, Ikuyo, insegnava la tecnica del sumi-e. Sono andato.
La tua sensei Ikuyo Toba Chiba ha fondato la prima Scuola di sumi-e a Roma nel 1975. Aveva una forte personalità artistica, parlaci del tuo incontro con lei e con la sua arte.
Un incontro lungo più di 30 anni. Non è stato facile all’inizio. Non c’erano spiegazioni didascaliche, quelle che utilizziamo noi occidentali per “capire”, o credere di capire. Era necessario ‘spiare’ ogni suo gesto quando si sedeva per suggerire o correggere un disegno, anche di altri, o quando ti offriva una tazza di tè verde: era un insegnamento rarefatto, gestuale non spiegato. Del resto non ha mai parlato un italiano fluente.
Nel tempo, nella lunga frequentazione è nata un’intimità che non mi sarei aspettato: spesso dopo gli incontri mi chiedeva di rimanere a cena o a pranzo con lei. Dal frigo uscivano cibi giapponesi ma amava molto anche la cucina italiana e il vino di Orvieto, che andava a prendere personalmente, in damigiane. Così accadeva che tra un bicchiere e il successivo, con gli occhi socchiusi.. mi raccontasse episodi della sua famiglia, di Tokyo devastata dalla guerra, del viaggio verso l’Italia in nave, una quantità di episodi che gettavano squarci illuminanti sulla sua vita.
Abbiamo fatto gite ad esplorare paesaggi e personaggi. Era l’unica persona a cui potevo far dono di crisantemi senza il rischio di fare gaffes, anzi accolti con vera gioia, come le peonie. Non so se aiuta a capire: una sua amica giapponese la definiva “L’ultima imperatrice!” Un mix di semplicità ed eleganza, con qualche asprezza qua e là…
Abbiamo collaborato a diversi lavori e insieme in Giappone nel 1997 e nel 2001 ad Osaka e al Museo Isetan a Tokyo abbiamo lavorato ad un allestimento con gli artigiani di “Artigianato e Palazzo” di Firenze. L’ho incontrata le ultime due volte a Milano dove si era trasferita un po’ di tempo prima di lasciare l’Italia e poi qui, ospite a Roma, prima del suo ultimo viaggio per il Giappone.
Per queste ragioni e molte altre, quando mi è stato chiesto, ho deciso di trasmettere quello che avevo ricevuto. Il sumi-e è una tecnica un po’ di nicchia: mi è piaciuto poter restituire ad altri un’esperienza che per me era stata molto significativa.
In una mostra collettiva della Scuola Toba Chiba, che si è tenuta nel 2009 presso l’Istituto Giapponese di Cultura in Roma hai presentato un dipinto raffigurante “Quattro merli” e un cane “Sila”, già in queste opere si nota la tua bravura nel rappresentare gli animali e ad evidenziare dei particolari significativi. Ci puoi spiegare se c’è un modo di osservare la natura e riportarla nel dipinto?
Nello Studio Toba c’era la consuetudine, come vuole la tradizione, per l’apprendimento di base, di dipingere piante e fiori dal vero. Sui tavoli trovavamo, noi allievi, bambù e fiori molto diversi che erano stati utilizzati per le lezioni di ikebana che Ikuyo teneva nel giorno precedente. Dopo qualche anno c’era una certa stanchezza rispetto a soggetti soltanto floreali, così un giorno ho, o forse abbiamo, noi allievi, incominciato a introdurre proposte diverse: ortaggi e pietre e legni e pesci: ciascuno veniva con la sua ‘spesa’.
A volte portavo sul tavolo la gabbia di legno verde dove abitava un merlo anziano e un’altra con un merlo giovane… poi c’era un dolcissimo cane nero, un cane adottato e due gatti siamesi che si rifugiavano nello scaldavivande di grandi termosifoni di ghisa. Tutti soggetti interessanti e nel caso dei merli molto… mobili. È cominciato così. L’osservazione attenta e soprattutto l’empatia con il soggetto, qualunque sia giocano un ruolo fondamentale.
Parlaci della tecnica di pittura sumi-e. Qual è la sua storia in Oriente?
Oooh la storia la trovate sui libri o almeno su Wikipedia! Incomincia in Cina passa in Corea e in Giappone. Viaggia al seguito di commercianti e monaci…
Si dipinge con un solo pennello (fude) panciuto e ‘appuntito’ di pelo di capra, inchiostro solido dal nerofumo di pino (sumi), una pietra nera (suzuri) dove scioglierlo con acqua e fogli di carta (washi): si lavora con i cosiddetti ‘quattro tesori’. Poi la passione cerca e trova altre declinazioni in pennelli grandi e piccoli, con peli vari e misti, inchiostri preziosi per fattura ed età, pietre istoriate e carte preziose… ma…
Ma in realtà è una tecnica povera. Permette di dipingere qualunque soggetto fiori piante paesaggi persone oggetti astrazioni, con strumenti essenziali. I limiti che pone la sobrietà della tecnica stimolano l’inventiva. L’impossibilità di correggere obbliga a una concentrazione totale. Con questa tecnica sono stati realizzati disegni ‘ingenui’, se vuoi, come quelli del monaco Sengai Gibon (1750-1837), ma anche opere straordinarie come il paravento “Alberi di pino” di Hasegawa Tohaku (1539-1610). Talvolta si usa anche il colore, di più in Cina. A volte si fanno interventi con il colore per scoprire… che non era necessario. È come una diminuzione.
Con il sumi-e sono stati prodotti capolavori straordinari e anche oggi è una tecnica insegnata nelle accademie orientali e artisti contemporanei la utilizzano per disegni di dimensioni ragionevoli, ma anche per action-painting che trovano limiti soltanto nel supporto, nello strumento e nell’energia di chi lo agisce. Ho visto persone che non avevano mai disegnato o dipinto riuscire a dipingere felicemente.
Non ci sono errori. L’imperfezione è benvenuta e occorre accettare che i quattro tesori dipingano con noi e talvolta per noi. L’impermanenza è sempre in agguato, è sempre lì a smentire le nostre pretese: s’impara ad accettare la difficoltà, i propri limiti, la non-concentrazione … Il sumi è un nero trasparente: traspare il nostro esserci, l’intensità con cui siamo lì.
Il virtuosismo e la freddezza della ripetizione abile sono inutili e anche un po’ antipatiche. Ci vuole una sincerità di cuore anche nella copia altrimenti diventiamo copisti un po’ meccanici e sterili.
Attualmente c’è una fioritura di giapponismo. C’è una attenzione a molti aspetti cinema, musica, libri, pittura, fotografia, architettura, arti marziali, etc ma c’è anche un Giappone di consumo fatto di conferenze, di corsi, di… un consumismo culturale un po’ liquido un po’ riduttivo e superficiale. Il Giappone pur così occidentalizzato è pur sempre un paese con un’altra lingua, un’altra religiosità, un’altra cultura difficile da capire in profondità. Il rischio è una assimilazione imitativa, una lettura con strumenti non appropriati.
Non è un caso che un artista cinese straordinario come Kwo Da Wei, vissuto per quasi tutto il novecento e oltre, (di cui tutti conosciamo il gatto nero con occhi azzurri, replicato in così tante stampe), vissuto tra oriente e occidente, si sia speso a scrivere un libro su “La pennellata cinese nella calligrafia e nella pittura” per spiegare, tra storia critica e tecnica, quella sensibilità gentile e raffinata che in Oriente apprezza la vitalità ruvida o umida di una pennellata, il modo in cui l’inchiostro nero si distende su un foglio di carta.
Collabori da vari anni con lo Studio Arti Floreali – Vicolo della Campanella a Roma – dove tieni lezioni di pittura. I tuoi corsi si rivolgono ad allievi di differenti livelli di conoscenza del sumi-e. Come sono organizzati?
Studio Arti Floreali è un luogo piacevole, tranquillo, direi protetto. Le persone possono lavorare in modo comodo. C’è anche uno spazio esterno, un cortile, arredato con piante che permette di ‘sgranchirsi’ o scambiare opinioni, anche mentre altri lavorano. Adesso collegata al cortile c’è anche uno Spazio galleria per mostre e incontri, nuovissimo e perfettamente restaurato e attrezzato. Purtroppo la situazione pandemica non ha permesso neppure la tanto attesa inaugurazione.
Nello Studio ci si ritrova abitualmente il venerdì con un orario lungo che chiamiamo “Studio Aperto”, dieci ore di fila! Questo permette alle persone di scegliersi un orario confacente ai propri impegni e collocare le proprie tre ore di lavoro nell’intervallo di tempo più comodo. Roma, si sa, non è una città facile per traffico parcheggi distanze.
Con le persone nuove faccio un colloquio per capire esperienze e aspettative. Un colloquio che non finisce mai in realtà… i primi quattro incontri sono l’apprendimento delle tecniche base. Poi si comincia a lavorare dal vero e davvero. I soggetti sono suggeriti, talvolta ‘imposti’, altre volte lasciati al desiderio di chi fa.
I tuoi corsi sono molto seguiti e in varie occasioni hai organizzato dei work-shop su argomenti particolari ed originali. Ce ne descrivi qualcuno?
Ne abbiamo fatti di molto diversi. Approfondimenti su certe tecniche, sperimentazioni varie, suminagashi, foderatura della carta dipinta. Molto coinvolgente e stimolante è stato lavorare insieme per quell’evento che abbiamo fatto per il Congresso Nazionale dell’AIAS (Associazione Italiana Amatori Suiseki) nel 2019 presso il Museo Orto Botanico dell’Università di Roma La Sapienza, initolato “Around a rock, Inside a stone”, un evento diverso, sottotitolato ‘Sumi Jam Session’ perché abbiamo lavorato insieme mescolando le pennellate di tutti su molti metri di carta, esponendone poi soltanto una decina!
EVENTI | Congresso AIAS 2019 – Sumi Jam Session
Particolare è stata l’iniziativa “haiku in concerto” che ha riscosso un buon successo. Come è nata?
Nel 2018 ad Arti Floreali si tenevano lezioni di shōdō, (che ho anch’io seguito un po’, non ero un bravo studente…). C’era una calligrafa giapponese, Taki Kodaira, poi trasferitasi a Londra, e al momento è in Giappone, purtroppo per noi. Mi piace mescolare idee persone competenze diverse, così le ho proposto un progetto: commentare con dei sumi-e e con le sue calligrafie degli haiku di autori antichi e moderni.
Ci voleva una scelta degli haiku. Così ho contattato Guidotto Colleoni, professore studioso di poesia cinese ed esperto e traduttore di haiku e molto altro… avevo cenato con lui ed altri dopo una sua conferenza presso Doozo, il ristorante/galleria di via Palermo, dove allora facevamo incontri di sumi-e. È stato come un ritrovarsi. È una persona coltissima e deliziosa. In più condividevamo anche l’idea che gli haiku sono per lo più intraducibili, del resto lo diceva già Lafcadio Hearn più di cent’anni fa, alla fine del secolo XIX, e tanto meno ha senso scrivere haiku in italiano o in altre lingue indoeuropee. Nulla vieta, è ovvio, di fare poesie brevi, ma senza la gabbia sillabica tipica dell’haiku: la lingua giapponese ha nei kanji (gli ideogrammi) uno strumento che gioca un ruolo complesso per la densità e molteplicità dei significati, una densità diversa: si dovrebbe, potendo, scriverli in lingua giapponese!
Accettarono entrambi la proposta e cominciammo a lavorare per alcuni mesi, a volte in tre. Con molte prove e rifacimenti e preziosi chiarimenti sugli aspetti più nascosti dei testi. Il risultato è stata una mostra di 25 haiku. Appesi in modo leggero con fili rossi e neri e piccolissime calamite, con i testi in giapponese e la traduzione di Guidotto, due sue conferenze e una divertente asta finale. Così è nato il titolo: “Haiku in concerto”.
Sei un artista che si pone con estrema disponibilità a conoscere varie arti orientali e non, ce ne parli?
Conoscenze? Non so se sia la parola giusta! Sono un curioso a vasto raggio, quindi anche superficiale! Ho fatto ceramica per un paio d’anni molto stimolanti con Sebastiano Allegrini e ho avuto la fortuna in quel contesto di conoscere Jeff Shapiro, un artista americano molto interessante. Adesso non ho tempo anche per praticarla, ma ‘uso’ le cose che ho fatto e ho nostalgia. Molta.
In un passato remoto… ho anche avuto la fortuna di fare calligrafia occidentale, un altro mondo, di grande fascino. Ho fatto alcuni workshop con Kathy Frate, Jean Larcher, Katarina Pieper, insegnanti generosi, pieni di talento. Ho fatto un paio di mostre collettive con loro.
Le mostre dei tuoi quadri sono sempre molto apprezzate. Quale di esse ti ha lasciato un ricordo particolare?
Non saprei. Le mostre servono per fare il punto e abbandonare quello che si è fatto, per intraprendere altre strade e fare nuovi “esperimenti”, interagire con chi viene agli incontri.
immagini tratte delle mostre del 2015 e 2016
Come con tutte le cose fatte c’è, dopo, un’estraneità, talvolta sorprendente: ci sono cose che non riconosci: talvolta sono frutto di una felicità semplice, quasi ingenua, frutto di una completa complicità con i ‘quattro tesori’ e con il soggetto, anche quando è una forma astratta. Se si è troppo soddisfatti è “pericoloso”, ma a distanza puoi rileggere le incertezze le incompiutezze le eccedenze le furbizie: insomma non è sempre facile essere in armonia con i ‘quattro tesori’!
Il lavoro di questi anni si è anche concretizzato nella mostra di cinque allievi, intitolata “Mangiare una torta dipinta”. Persone con caratteristiche diverse e diversa esperienza si sono confrontate con temi uguali, interpretandoli ciascuno a suo modo, con un risultato sorprendente: il sumi-e può avere esiti felici. Lo racconta il catalogo. Il tutto era anche corredato da una raccolta di mail-art: decine di cartoline spedite ad Arti Floreali nei mesi precedenti all’inaugurazione, per dire che il sumi-e può essere una modalità espressiva semplice, quotidiana.
Mostra “Mangiare una torta dipinta” realizzata con allievi 2019
Info e contatti
Website: https://www.artifloreali.it
Instagram: https://www.instagram.com/sumie_suibokuga/
E-mail: mgtopazio@gmail.com
Phone: +39 3927031519