Quando si inizia lo studio dell’ikebana uno dei concetti più difficili da apprendere è quello del vuoto. Per noi è una nozione con un’accezione sempre negativa. Il vuoto lasciato da una persona. Il frigorifero vuoto. Persino nel mio lavoro si parla di vuoto scenico nel momento che sul palco non accade nulla di rilevante. Certo il termine “Ma” 間 vuol dire anche spazio, intervallo, pausa, ma principalmente è un vuoto strutturale tra due elementi. Si può tradurre con concetti vari, ma la parola “vuoto” è quella che ci ostacola maggiormente.
Quando, in epoca di pandemia, il mio gruppo di ikebana realizzò la serie di conferenze inerenti le parole dell’ikebana in lingua giapponese con Luigi Gatti, lui spiegò molto bene questo significato, ma come farlo vedere esteticamente in una composizione? Come far comprendere la differenza tra questo spazio vitale e la mancanza di un elemento? Il vuoto che dà senso al pieno.
Di recente ho avuto la fortuna di incontrare la scrittrice belga Amélie Nothomb che ha scritto libri sulla sua esperienza giapponese come “Stupore e tremori“, “Né di Eva né di Adamo” e “La nostalgia felice“. È un’autrice che amo molto, e mi sono fermato a parlare con lei di una frase del suo ultimo romanzo (“Psicopompo“) che mi ha colpito molto: “Mi ritrovavo nei panni del pittore occidentale che scopre le pitture dell’Estremo Oriente, è estasiato dalla rivelazione del vuoto, ma non riesce a inserirla nella sua arte, perché ignora il modo di liberarsi dalla saturazione.”
Nel caos del firma copie, presentandomi come maestro di ikebana, ci siamo messi a disquisire sulla sua frase che le ho detto utilizzerò da ora in avanti con le allieve. Invece di creare un vuoto parlerò di eliminare la saturazione che ci può colpire passeggiando in campagna o in un bosco.
Non so se il caso poi ci faccia scoprire altri fattori o semplicemente li notiamo quando compiamo un passo avanti nell’apprendimento, ma dopo questo scambio di opinioni con la Nothomb mi è capitato di vedere la seguente fotografia di Vincenzo Salemme, artista che apprezzo da anni sia per la ritrattistica sia proprio per le immagini della natura come lui la vede.
In questa stupenda fotografia, per me, la luce va a creare quello spazio, quel vuoto tra gli elementi che forse sarebbe in minor evidenza senza di essa. Riesce, tramite quei raggi solari, a dare spazio tra gli elementi, tridimensionalità, spessore tra ciò che è nitido in primo piano e ciò che si sfoca nella profondità. Prendendo spunto da questa fotografia ho proposto alle allieve di realizzare degli ikebana per la festa pasquale, e io ho deciso di utilizzare la Magnolia × soulangeana meglio nota come Magnolia Japonica. Nelle mie intenzioni c’era quello di creare un intrico di rami come quello presente in foto.
Al maestro Lucio Farinelli l’incarico di reperire i rami presso il nostro fornitore Edoardo Middei, dato che in quei giorni ero influenzato. Unico diktat che fossero piuttosto robusti. Avevo già in mente che vaso utilizzare ed era chiaro come avrei sviluppato il tutto. Per me era palese, ma non per i rami. Spesso ci scordiamo che per quanto si possa lavorare il materiale vegetale questo abbia un suo carattere, andamento, personalità e noi dobbiamo rispettarlo. Sempre. Spesso si vedono spacciati per ikebana cose asettiche e fredde che non hanno nulla che ricordino la natura ed è profondamente sbagliato. La difficoltà, come anche in altre arti giapponesi, è di far sì che sembri tutto naturale, che la mano dell’uomo non si avverta.
Nella Sogetsu, dove la personalità dell’esecutore è importante, tutto ciò è ancora più difficile da realizzare. Mi sono quindi messo a creare nel vaso l’ancoraggio necessario per la stabilità dei rami e a porre i primi elementi nel vaso. Lì mi sono accorto che sarei andato in un’altra direzione. La luce della fotografia nel mio lavoro sarebbe stato uno spazio inondante. Man mano che lavoravo il ramo principale avvertivo sempre di più questa esigenza. Nello stesso tempo, ovviamente, non potevo fare solo uno spazio per cui andavo piano piano a cercare un equilibrio con il ramo secondario e i Fiori di Cera che avrebbero unito la Magnolia al contenitore. Ho capito quando fermarmi memore delle lezioni della mia maestra Mika Otani. Andare oltre avrebbe distrutto la bellezza naturale dei rami.
Se per realizzare un ikebana vanno via delle ore, peggio quando lo si deve fotografare. Va scelto il giusto sfondo (la Sogetsu predilige quelli colorati) e capire da che parte deve cadere la luce. Altra difficoltà è l’inquadratura in quanto l’obiettivo della macchina fotografica è più… obiettivo del nostro sguardo che, assieme all’ikebana, vede le cose circostanti.
Mi è venuto spontaneo scegliere lo sfondo celeste, sapevo che ci stava bene con quel tipo di composizione. Solo successivamente ho compreso che non era stata una mia idea, ma qualcosa di inconscio che avevo dentro di me, ovvero l’immagine di un quadro del mio pittore preferito: Van Gogh. Ovviamente non mi paragono a lui, ci mancherebbe altro, ma ogni cosa che vediamo o apprendiamo va a creare quel puzzle che è la nostra personalità.