Torniamo nel mondo della ceramica per conoscere un giovane promettente takumi, un artigiano che mi ha meravigliato tanto per la sua produzione artistica quanto per il percorso che ha compiuto per arrivare ad essere ciò che è. Le sue realizzazioni in gres e porcellana coniugano l’estetica giapponese ad una funzionalità universale, oserei dire arcaica, con il risultato di riuscire a realizzare degli oggetti in cui la semplicità risulta essere la caratteristica, il trait d’union, che collega l’essenzialità nipponica con l’eleganza squisitamente italiana.
Desidero ringraziare pubblicamente Guido, non solo per la sua grande disponibilità in questa intervista, ma sopratutto per essersi raccontato senza filtri, in modo umile e discreto… doti sempre più rare oggigiorno, ma quanto mai sinceramente apprezzate.
In un celebre discorso, Steve Jobs disse che la nostra vita è il frutto inconsapevole – ma chiaro se rivisto col senno di poi – di un percorso fatto unendo tanti puntini. All’età di 25 anni c’è stato un puntino – un evento – che avrebbe cambiato la tua vita per sempre, e mi riferisco al tuo arrivo in un monastero. Ti va di parlarcene?
Iniziamo subito con il botto! Chi mi conosce sa che la riservatezza non è una cosa che mi appartiene. Nonostante ciò ci sono alcune cose, tra cui questa, per cui nutro una sorta di discrezione. Non che non ve ne voglia parlare, ma è per farvi capire di quanto sia una cosa intima e personale. Dentro di me covo un celato timore che l’interlocutore non riesca veramente a comprendere appieno la mia scelta, nella migliore delle ipotesi.
Prima di arrivare al tema della domanda credo sia necessario un preambolo. Il me che è approdato al monastero all’età di 25 anni era una persona sicuramente tormentata, senza un centro e soprattutto assetata di senso. Con il senno di poi oserei dire che tutto ha avuto origine durante l’adolescenza, l’età turbolenta per eccellenza. Un’età in cui il desiderio di mappare il mondo e di capirlo era essenziale, in cui tutte le grandi domande misteriose dell’esistenza (perché la vita e la morte? Perché l’amore e la sofferenza? Perché chi troppo e chi niente?…) dovevano essere subito esaudite.
Frequentazioni di certi ambienti con certe idee politiche, accompagnate da un appassionato studio della filosofia, hanno segnato in me una certa visione del mondo che ha condizionato, e continua ancora a farlo in certa misura, tutte le scelte che ho intrapreso.
Crescendo, la passione per la filosofia si è trasformata poi nell’interesse spiccato verso la spiritualità. Il primo amore è stato il buddhismo. In maniera quasi compulsiva compravo libri che parlassero della figura del Buddha (tra cui il primissimo fu Siddharta di H. Hesse), della sua filosofia, delle pratiche, dei dogmi e di tutto ciò che ruotasse intorno a quest’uomo che aveva raggiunto l’Illuminazione, e aveva insegnato all’umanità una Via che la portasse fuori dalla sofferenza.
Cominciai a praticare meditazione per diverso tempo anche con maestri, seguivo forum che parlavano di buddhismo, spiritualità in generale e via dicendo. Il culmine della mia ricerca è stato un viaggio in India e Nepal che ho fatto a 24 anni della durata di tre mesi, in solitaria.
Senza dilungarmi eccessivamente sul viaggio in sé, quando sono poi tornato a casa, dentro di me era ancora presente quel vuoto che avevo cercato in ogni maniera di riempire. Ironicamente dico sempre che sono andato in India e non l’ho trovata.
Rimasto ancora assetato dopo questo lungo peregrinare, ho iniziato ad interessarmi al Cristianesimo, ma più precisamente alla figura di Gesù e ai vangeli. Ho iniziato quindi ad indagare ciò di cui di più vicino non poteva esserci e che, alla fine dei conti, che ci piaccia o no, fa parte delle nostre fibre e della nostra cultura da millenni. Nel bene e nel male.
Per me è stata una boccata d’aria fresca, una sensazione di essere, finalmente dopo tanto tempo, tornato a casa. Il mio passato da anticlericale convinto mi ha protetto ampiamente da certe derive moraliste, dogmatiste, devozionali e clericaliste di cui purtroppo il cattolicesimo è intriso, e mi ha permesso di studiare e comprendere (forse meglio e senza troppi condizionamenti?) il messaggio di questo uomo straordinario. Ringrazio per questo.
Come era successo per il buddhismo non mi sono accontentato di rimanere in superficie e allora ho deciso di immergermi totalmente in quello che ormai aveva tolto la mia sete. Le mie intenzioni erano serie e decise agli inizi. Intraprendere la vita monastica per diventare monaco.
L’entusiasmo e la gioia di aver trovato finalmente quello che stavo cercando da anni erano troppo grandi e questo tipo di “vocazione” si sposava perfettamente con altri valori che avevo coltivato, ovvero la vita vissuta in comune e fuori dal modello della società occidentale basata sul profitto spietato e sul consumismo.
In questo periodo molto importante e significativo sono stato accolto a braccia aperte e accompagnato nel discernimento per tutto il tempo che mi è stato necessario. Dopo la gavetta nell’orto, una sorta di banco di prova anche a livello fisico, sono stato mandato a lavorare nel laboratorio di ceramica dal superiore, che aveva visto in me del potenziale.
E da lì è nato questo grande amore che continua a bruciare.
Si dice che quella della ceramica sia la più nobile delle arti, visto che lo stesso uomo sia stato plasmato con della terra da Dio. Cosa hai provato le prime volte che hai avuto a che fare con questo mondo?
Che sia la più nobile non lo so, sicuramente è una tra le più antiche. A differenza di altre arti, l’arte della lavorazione della ceramica si è sviluppata per soddisfare bisogni primari, per necessità. Questo credo che sia una cosa molto importante da tenere a mente.
Ormai dopo migliaia di anni di evoluzione, e nell’era della tecnica, è facile dare per scontato molte cose. Le forme primordiali infatti erano molto semplici: ciotole per mangiare che sostituivano probabilmente le foglie, bicchieri per bere al posto delle mani, giare per tenere il cibo e via dicendo.
Forme che tutt’ora, e questo è veramente sorprendente se ci si pensa, sono rimaste invariate nel tempo e continueranno ad esserlo. Questo è quello che provo quando ho messo le mani nell’argilla la prima volta e che continua ad accadere ogni giorno quando mi metto al lavoro. Lo stupore e la meraviglia di sentirmi connesso con i primi uomini che hanno cercato di migliorare la propria vita e quella della propria comunità attraverso la lavorazione dell’argilla. Questo è ciò che continua ad essere il mio obiettivo e missione.
Qui in Takumi parliamo spesso della pratica legata al suo connaturato valore terapeutico. Quanto la ceramica ha (anche) questa valenza per te?
Sicuramente l’aspetto che si può avvicinare di più alla definizione di terapeutico nella mia esperienza nella ceramica è quello di creare una forma, un oggetto dalla materia grezza, informe. È come dare ordine, senso e utilità a qualcosa che ne è privo.
E poi anche, ad un livello più corporale, le sensazioni fisiche suscitate dal contatto delle mani con l’argilla, soprattutto al tornio, quando il pezzo è centrato e risponde a qualsiasi minima sollecitazione, dove l’argilla e le mani entrano in sinergia come se fosse una danza.
Qual è stata la scintilla che ti ha portato a fare della tua inaspettata nuova passione il tuo lavoro?
L’opportunità che mi ha permesso di fare il salto è stata quella che può essere definita un fallimento o una sfortuna, ovvero un non rinnovo di un contratto di lavoro. Già allora mi dedicavo alla ceramica come secondo lavoro, nei ritagli di tempo che avevo, essendo un part time.
Quando l’azienda per cui lavoravo ha deciso di non rinnovarmi il contratto ho preso subito la palla al balzo e mi sono così tuffato interamente in questa avventura. Non ho assolutamente rimpianti e lo rifarei mille volte, ringrazio quel giorno.
Guardando le tue creazioni, sono rimasto molto colpito dalla loro semplicità ed essenzialità, dalla loro bellezza discreta e sussurrata… caratteristiche riscontrabili nell’estetica giapponese. C’è stata una tua ricerca estetica in tal senso, o è semplicemente frutto del tuo gusto?
Credo che il gusto sia una cosa molto difficile da definire una volta per tutte e anche cercare di indagarlo nel momento presente, in quanto sempre in divenire. I miei grandi maestri sono stati sicuramente coloro da cui ho imparato a fare ceramica: al monastero e presso un ceramista in Toscana, vicino S. Gimignano.
Quando le cose hanno iniziato a farsi più serie e si sono approfondite, anche attraverso studi e letture, ho notato che lo stile in cui sono cresciuto era erede di alcuni personaggi e movimenti influenti che hanno rivoluzionato il modo di fare ceramica, specialmente il gres e l’alta temperatura, in occidente.
Sono arrivato quindi a conoscere Bernard Leach e il suo movimento, quello che ha dato vita allo “Studio pottery”, nato a cavallo tra l’800 e il ‘900. Bernard Leach spese molti anni della sua vita in Giappone e il suo stile ne fu profondamente influenzato. Venne a contatto con il movimento “Mingei”, tra i cui capisaldi troviamo la preservazione della tradizione antica della ceramica giapponese e la creazione di oggetti fruibili per tutti.
Dice Wikipedia: “l’arte manifatturiera della gente comune“, i cui capisaldi sono: essere creato da artigiani anonimi, produzione manifatturiera in quantità, economico, usato dalle masse, utile per vita quotidiana, rappresentativo della regione nel quale è stato prodotto.
Nella nostra società occidentale di oggi alcuni punti sono difficilmente attuabili, come ad esempio il fatto di rimanere anonimi, basti pensare a quanto si parla di brand e branding, ed il concetto economico e in grandi quantità è diventato molto relativo in quanto ormai questo primato lo detiene l’industria, però a discapito della qualità e dell’estetica.
Uno dei tratti distintivi del mio lavoro è far dialogare i tratti dell’estetica orientale con lo stile funzionale di stampo occidentale. Quindi sicuramente un’ispirazione e una gratitudine ai grandi maestri del passato dell’oriente, specialmente di Cina, Giappone e Corea, agli ‘studio potter’ di ieri e di oggi, ma sempre adattata allo stile di vita, alle forme e al design della società in cui sono nato e cresciuto.
Una delle frasi che più spesso ripeto è “la bellezza salverà il mondo”. Nel mondo dell’estetica zen, il bello trascende la sua forma per diventare valore etico e morale. È un azzardo affermare che le tue opere migliorino la vita delle persone che le hanno?
Io dico sempre scherzando che bere il caffè nelle mie tazzine, o comunque in un prodotto artigianale fatto ad arte con anima e cuore, rende il caffè, la bevanda, il cibo più buono. Ma ogni volta che lo dico in realtà ci credo.
Senza chiederlo ho avuto riscontri anche in altre persone, amici e clienti che mi hanno detto la stessa cosa, magari anche loro scherzando, magari no. Può mai un semplice oggetto quotidiano avere un’anima, un’energia, trasmettere emozioni e modificare la nostra percezione delle cose? Evidentemente sì, anche se non ci prestiamo troppo attenzione.
Una delle convinzioni che accompagna il mio lavoro è che anche i più piccoli dettagli contano, e anzi sono proprio quelli che possono migliorare, giorno dopo giorno, nella nostra quotidiana ritualità, il nostro vivere.
Hai abbracciato l’artigianato come tuo modus operandi, in una località amena del Monferrato, luogo scandito da un ritmo di vita per niente frenetico ed alienante, come invece la maggior parte di noi vive. È stata una tua precisa scelta, o un altro puntino casuale della tua vita?
Su questo punto devo dire che sono stato abbastanza fortunato. Il Monferrato è la terra dove sono nato e cresciuto e dove ho trascorso la maggior parte del mio tempo, nonostante non mi sia mai sentito appartenervi totalmente per la mia mentalità nomade e da cittadino del mondo. È il luogo degli affetti e delle radici, dove ho casa, laboratorio e via dicendo.
Sicuramente un posto molto bello per la conformazione del territorio, per la sua vegetazione variegata e per la sua vocazione ancora contadina e rurale. Anche se faccio parte di quella cerchia di persone che sente che ogni terra straniera è per loro patria e ogni patria terra straniera, man mano che cresco lo sto apprezzando sempre di più.
Tra i tuoi lavori, ho visto un bellissimo vasetto in raku caratterizzato dalle linee dorate del kintsugi. È anche questa un’arte che hai imparato o affidi ad altri questo tipo di lavorazioni?
Il Kintsugi è una tecnica a mio parere molto seria, con un significato simbolico profondo, ma che rischia di essere banalizzata per la tendenza che si ha di trasformare le cose esotiche in moda. Proprio per questo motivo non uso quasi mai il kintsugi per le mie opere. Oltre ad essere una procedura molto complessa, con materiali specifici anche molto costosi, come la lacca urushi e l’oro vero, essa richiede maestria e non può essere improvvisata.
Il vaso in questione è stato un mio esperimento, fatto quasi per divertimento, con materiali che non sono tradizionali. Proprio per il rispetto della tecnica e di chi la fa con maestria e come si deve, mi astengo dal riprodurla.
Vista l’estetica così caratterizzante dei tuoi lavori, hai mai pensato di lavorare in collaborazione con ikebanisti e bonsaisti?
Come in ogni disciplina orientale, e nel particolare giapponese, ci sono parametri e regole ben precise che definiscono un’opera come adatta al suo scopo o meno. Ora, pur sapendo molto poco di bonsai e di ikebana, so che per la prima servono misure e proporzioni precise perché un vaso possa essere considerato e usato per un bonsai. Per non parlare degli smalti, decorazioni, pattern e via dicendo. Insomma una disciplina a sé con le sue regole ben dettagliate.
Per l’ikebana il discorso cambia leggermente in quanto, credo, non ci sono regole così ferree per quanto riguarda il vaso, anche se so che ci sono forme specifiche più adatte di altre. L’ikebana ha anche più punti di contatto con il tipo di ceramica che faccio io, che è di uso e di arredamento, e comprende anche ceramica da bevitori e estimatori del tè. Chi abbia mai partecipato ad una cerimonia del tè, avrà sicuramente notato che in una parte della stanza c’è sempre un bel vaso con fiori, seguendo le regole di questa arte.
foto © Eleonora Cerrato
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