In questo 2020 funestato da molti dolori e con, si spera di conseguenza, un riequilibrio dei sentimenti e delle priorità dell’umanità, abbiamo, purtroppo, assistito ad un parziale blocco delle attività legate alla cultura. E mai, come in questo frangente, le persone hanno dimostrato di aver bisogno di svago, che sia il dedicarsi a forme di arte, o di evasione teatrale, cinematografica e museale, come a voler contrastare tutto il “brutto” che ci sta soffocando.
Davide Livermore, regista di spicco del panorama lirico, ha ben pensato, durante lo scorso concerto di inaugurazione (virtuale) della stagione scaligera (“A riveder le stelle” recuperabile su Raiplay), di unificare sia il tema teatrale sia quello legato al mondo del cinema o dell’arte pittorica.
“Lucia di Lammermoor” immersa nel quadro “The Singing Butler” di Jack Vettriano, le due arie di “Un Ballo in maschera” portate in un’atmosfera hitchcockiana, o gli omaggi felliniani per le arie di “Don Pasquale” e “L’elisir d’amore”, ad esempio.
Per non parlare dell’emozionante inizio con l’Inno Nazionale italiano che ha visto protagonisti i numerosi tecnici, sarte, truccatori, macchinisti, elettrici ed attrezzisti che popolano il dietro le quinte e spesso dimenticati dal pubblico.
Ma le due arie su cui vorrei soffermarmi maggiormente sono quelle legate all’opera Madama Butterfly di Giacomo Puccini.
Siamo nel momento storico di esplosione della passione dell’Europa verso il Giappone (in piena Belle Époque) quando andò in scena il 17 febbraio del 1904 al teatro Alla Scala la “Madama Butterfly” tra, come si sa dalle cronache giornalistiche, risate e fischi.
Eppure, mai opera è più citata e rappresentata nel mondo con successo, a partire dalla successiva riedizione tre mesi dopo a Brescia.
Un’opera molto amata dagli stessi giapponesi qui ben raffigurati, nella loro cultura, a differenza di altri melodrammi come l’Iris di Mascagni. Questo perché Puccini si documentò molto sul Giappone, le sue tradizioni, le sue musiche, grazie all’allora moglie dell’Ambasciatore del Giappone in Italia.
L’opera presenta otto errori culturali che, vista l’epoca in cui fu scritta e la mancanza delle informazioni di cui invece disponiamo oggi, sono ben poca cosa rispetto a quella di Mascagni, dove il Giappone è solo uno sfondo da cartolina.
Le due arie nel concerto presentate sono state l’ultima che canta la protagonista prima di uccidersi “Tu, tu piccolo Iddio”, e la celeberrima “Un bel dì vedremo”, posta quasi al termine del concerto per un segno di speranza fiduciosa.
Nella prima aria delle due presentate siamo al finale dell’opera, dove Cio-Cio-San (alias Madama Butterfly) sta per commettere il suicidio rituale (spesso sbagliato come gesto dai registi, mentre Puccini e i librettisti Illica e Giacosa indicano che la donna si taglia la gola dietro a un paravento) non tanto perché Pinkerton l’ha ingannata, abbandonata e ripudiata, quanto per garantire al figlio un futuro con la famiglia del padre.
Un futuro in una nazione che è vista come scevra di pregiudizi rispetto a quella giapponese. Tra l’altro a descrivere le sorti di quel bambino, ormai adulto, sarà compito del musicista contemporaneo Shigeaki Saegusa in “Junior Butterfly”. Ma questa è un’altra storia.
Livermore si affida alle abilità spettacolari di Controluce che mettono in scena, alle spalle del soprano Kristine Opolais, un’immagine che ricorda il teatro di marionette in silhouette dove una madre (circondata da pochi segni grafici caratterizzanti come una parte di pagoda, un ramo o l’acconciatura) sta dando il proprio addio al figlio.
Ombre cinesi che con il movimento delle mani a “volo di uccello” si trasmettono al soprano, che sul finire diviene lei stessa ombra tra nugoli di lucciole che si tramutano in una via lattea insanguinata su sfondo bianco, ricordando i colori della bandiera giapponese.
Di ben diversa ambientazione è l’aria “Un bel dì vedremo”, dove la nostra protagonista sogna il ritorno dell’amato Pinkerton dalla sua grande nazione America.
Il soprano Marina Rebeka è immersa in un colorato quadro animato che ricorda gli stilemi Sumi-e. Lei è posizionata su una passerella lignea immersa in acqua (che potrebbe rappresentare l’Hashigakari del teatro Nō).
Un ramo dai fiori rossi di ciliegio, profili stilizzati di montagne, un sole rosso che ricorda il centro della bandiera giapponese.
Piano piano compare il disegno della nave che dovrebbe portare l’amore, l’ingresso del porto di Nagasaki e i fiori iniziano a muoversi scossi dal vento, ma è come se stessero respirando, piano, ritmicamente, dolcemente.
I colori netti rossi e neri sullo sfondo bianco creano un forte impatto cromatico, ma che nello stesso tempo ha un senso di lievità con quel tratto sfumato tipico del Sumi-e, che pare una promessa di continuità al di là dello stesso segno grafico, qualcosa che forse un giorno si completerà. Ma non oggi.
La nave lascia poi lo spazio alla collina di Nagasaki su cui campeggiano grandi alberi di rossi ciliegi, i cui petali cominciano a fluttuare in un poetico Hanami.
Una scena di bellezza poetica mozzafiato, di speranza con quel tocco di rosso come a voler però ricordare le sofferenze del passato. Un gesto che sa molto di giappone dove la rimembranza spesso diviene malinconica poesia. Ma tutta la romanza è pervasa da un’aria di fiduciosa aspettativa. Come quella che noi stiamo vivendo oggi.
2 Responses
Sono proprio d’accordo con te, Luca. Ho apprezzato molto il concerto ma moltissimo la regìa. Anche a me hanno suscitato emozioni i pannelli dietro i cantanti, specie quello di Un bel dì vedremo, con le aggiunte nel disegno con l’andar dell’aria: una poesia.
Ottimo articolo scritto da un esperto di grande livello del mondo della lirica. Interessanti i riferimenti alla cultura giapponese. Grazie.