Voler comprendere una cultura diversa dalla propria è un’ardua sfida per chiunque ci si voglia cimentare, in primis perché implica il dover conoscere bene la propria, così da poter operare i doverosi paragoni e distinguo.
Una strada percorribile a tale scopo necessita di un processo simbiotico capace di percepire sufficientemente l’altra cultura come fosse la propria, anche se il margine di tale procedimento diventa molto labile se la civiltà a cui ci approcciamo è così distante come quella nipponica (distanza solitamente a dir poco incolmabile).
Il primo passo è senza dubbio partire dallo studio dei valori e degli ideali che permeano una civiltà dal profondo, ed uno dei libri scritti proprio con tale intento è “Bushido. L’anima del Giappone” di Inazō Nitobe (Giunti, 2021, pp 96, € 20,00). Il testo ha visto tantissime riedizioni, ma questa ultima della Giunti è tanto raffinata quanto curata, ne ricalca la tradizionale rilegatura giapponese, con pagine a fisarmonica e copertina rigida cartonata con cordino rosso e dettagli in oro… un vero must per gli appassionati del “bel libro”.
Inazō Nitobe (1862-1933) era un importante educatore e diplomatico giapponese. Convertitosi al Cristianesimo, nel 1883 riprese gli studi di letteratura inglese ed economia presso l’Università di Tokyo, per poi recarsi dapprima negli Stati Uniti, dove studiò per tre anni, e poi in Germania per altri tre. Nel 1897 si trasferì negli Stati Uniti con la sua consorte statunitense, dove scrisse questo testo fondamentale. Tornato in Giappone nel 1926, divenne direttore dell’Istituto delle Relazioni Pacifiche.
Il termine bushidō è conosciuto solitamente dai praticamente delle arti marziali, ma cosa vuol dire di preciso? Letteralmente significa “la Via del guerriero”, e con questo termine si indicano una serie di valori morali ed etici a cui dovevano attenersi i bushi, gli uomini d’arme – i samurai – gli appartenenti alla classe guerriera che di fatto amministrò il Giappone tra il X ed il XIX secolo.
La letteratura, il cinema, l’animazione giapponese hanno dato un enorme contributo alla divulgazione del bushidō, alimentando al contempo la credenza che fosse una serie di regole ben codificate a cui tutti i samurai dovessero attenersi. Questo fantomatico elenco di regole non solo non era mai stato scritto, ma nello stesso periodo ci sono state interpretazioni del bushidō completamente diverse tra loro. Ciò era dovuto prevalentemente alla grande frammentazione politica che ha caratterizzato il Giappone in tutto il periodo feudale.
Il termine stesso è apparso agli inizi del 1600 con una valenza ben diversa da quella assunta successivamente. Nel 1717 bushidō compare nel famosissimo e controverso Hagakure di Yamamoto Tsunetomo – monaco buddhista ed ex samurai del feudo di Saga – ed è quanto di più simile ci sia alla concezione del termine che ancora oggi abbiamo.
Uno dei passi più importanti del testo recita “la Via del guerriero è la morte”. L’autentico significato di questo insegnamento è l’invito ad accettare la morte per vivere appieno la vita, così da fugare ogni vano timore. Ad una prima lettura, questa pietra miliare della saggezza giapponese si presenta come un testo ricco di aneddoti, di ricordi e di citazioni disarticolate. Ad una più attenta lettura, invece, per usare un degno paragone appartenente al nostro immaginario occidentale, si rivela essere come la Repubblica platonica dei samurai.
Sarà soltanto nel XVIII secolo che il bushidō inizierà a prendere forma. I principi su cui si fonda sono essenzialmente di stampo confuciano: la lealtà verso il proprio padrone, la pietà filiale, la difesa dei deboli ed il mantenimento dell’onore a qualsiasi costo. Tali principi diverranno la base delle sette virtù del bushidō che oggi conosciamo: giustizia, coraggio, compassione, cortesia, sincerità, onore e fedeltà.
Agli inizi del 1900, grazie a questo libro, il termine bushidō verrà scritto all’interno dei dizionari di lingua giapponese, ulteriore riprova di come il termine non fosse in uso nel periodo feudale, ma sia il risultato di una codificazione moderna da parte di un uomo – Inazō Nitobe – il cui obiettivo era far sì che il Giappone venisse compreso ed accettato all’interno della Comunità Internazionale.
“Una decina di anni fa, durante un breve soggiorno nell’accogliente residente di un illustre giurista belga, il compianto monsieur de Laveleye, la nostra conversazione cadde sul tema della religione. «intendete dire» domandò il venerabile professore «che le vostre scuole non prevedono alcun insegnamento religioso?» Quando lo confermai, lui rimase attonito per un momento. Poi, in un tono di voce che dubito di poter mai dimenticare, esclamò: «Niente religione! E come impartite un’educazione morale?». Sul momento restai interdetto. Non sapevo rispondere, perché i precetti morali che avevo appreso nell’infanzia non erano insegnati a scuola. Solo quando cominciammo ad analizzare i vari elementi che costituivano il mio concetto di bene e di male mi resi conto di averli «respirati» insieme al Bushido.
Inazō Nitobe
Questo libro è stato concepito grazie alle molte domande poste da mia moglie sui motivi per cui questa o quella idea, questo o quel costume sono tanto radicati in Giappone.
[…] Trattando i vari argomenti ho cercato di illustrare ogni concetto ricorrendo a parallelismi tratti dalla storia e dalla letteratura europee, nella convinzione che serva ad avvicinare la materia ai lettori stranieri e a renderla più comprensibile.”