Alessandro non ha certamente bisogno di presentazioni, tanto son conosciuti il suo nome ed i suoi meriti. Nel panorama mondiale del bonsai è diventato famoso per essere stato il secondo occidentale (il primo è stato lo statunitense Ryan Neal) ed il primo europeo/italiano ad essere stato allievo del Maestro (anche se si dovrebbe usare l’appellativo di Oyakata) Masahiko Kimura, ed essersi diplomato concludendo tutto il ciclo di formazione nel suo giardino nonostante la sua giovane età.
Ho avuto modo di conoscerlo ed apprezzarne le sue qualità a distanza, in particolar modo la sua determinazione, la sua passione ed il suo essere estremamente franco e diretto. Intervistarlo è stata un’importante occasione che mi ha arricchito, e sono certo che sarà così anche per voi.
Tante sono le cose che si potrebbero dire di lui, ma preferisco dargli direttamente la parola, e farvelo subito conoscere attraverso il suo pensiero… buona lettura.
Ricordi quando è scattato in te l’interesse per il bonsai?
Non mi ricordo con precisione quando ho iniziato ad interessarmi al bonsai, è passato troppo tempo, sicuramente era nel periodo delle elementari e a suscitare la mia curiosità sono state alcune mostre di quartiere e il libro “capolavori bonsai” che casualmente si trovava in casa nonostante nessuno tra i miei parenti fosse appassionato.
Qual è stato il tuo iniziale approccio al bonsai e quale il tuo percorso di apprendimento?
All’inizio è stato difficile avvicinarsi al bonsai, ero un bambino che voleva seguire un hobby da adulto e per questo non ero preso sul serio nell’ambiente. Addirittura in una scuola mi è stato detto “torna quando sarai più grande”.
La mia più grande fortuna è stata incontrare casualmente il famoso maestro internazionale Massimo Bandera. A lui do il merito di aver concretizzato quello che era un semplice interesse trasformandolo in una passione.
La sua idea di un bonsai artistico che l’autore sfrutta per esprimere se stesso mi ha affascinato moltissimo tanto da convincermi di voler diventare un professionista.
Come hai maturato l’idea di diventare allievo del Maestro Masahiko Kimura?
Durante le lezioni di Massimo Bandera Kimura veniva presentato come il più grande innovatore dell’arte bonsai, un vertice assoluto sia nella tecnica che nell’estetica.
Il miglioramento del materiale di partenza e il superamento dei limiti tecnici erano per me un’ossessione al punto di chiedere a Massimo di presentarmi al maestro Kimura.
Hai dovuto prepararti, e se sì in che modo, prima di recarti nel suo giardino?
Nell‘apprendistato giapponese non ti viene richiesto di avere esperienza in campo bonsai, la cosa più importante è dimostrate di essere pronto psicologicamente ad intraprendere questo tipo di percorso. Nel mio caso mi è stato richiesto di sottopormi ad un test di determinazione: imparare a parlare un giapponese discreto in un solo anno di lezioni.
Per me è stata una sfida stimolante, ma a posteriori sono rimasto deluso nel constatare che tra tutti gli allievi stranieri del maestro sono stato l’unico a impegnarmi per davvero in questo campo.
In Italia esistono diverse scuole ed Istruttori che propongono una propria visione della didattica. Com’è strutturato invece il metodo d’insegnamento del Maestro Kimura?
Ciò che mi ha stupito del metodo Kimura è la totale assenza di una didattica. Viviamo in una società dove l’educazione è basata sulla scuola che ci insegna che l’apprendimento si fa per step con vari livelli di obiettivi intermedi.
Per chi inizia un apprendistato in Giappone il primo periodo è terribile: non esistono bonsai facili o lavorazioni per principianti, ogni bonsai per esprimersi al meglio necessita del lavoro di un professionista esperto.
Per questo motivo oltre ai rimproveri è frustrante il confronto fatto con lavori di alto livello e non riuscire a replicarli.
Se si supera questa fase il bonsai diventa via via più piacevole e stimolante, una volta imparato come impostare i rami di una pianta si passa alle considerazioni estetiche profonde, la valutazione dei materiali, le tecniche invasive in grado di modificare i tronchi o i rami primari fino allo sviluppare nuove idee e nuove tecniche.
Se dovessi quindi riassumere il metodo Kimura direi che è un approccio quasi esclusivamente pratico al bonsai, dove non vi è un aumento della difficoltà nei materiali lavorati ma c’è un aumento nella consapevolezza su come realizzarli.
Posso soltanto immaginare quanto complessa ed immersiva sia stata un’esperienza simile fatta in una nazione con dei valori così distanti dai nostri, e non a caso sei il primo ed unico europeo ad averla fatta e conclusa. È un percorso che consiglieresti?
Sinceramente non mi sento di consigliare questa specifica esperienza ma un discorso più generale: viviamo in una società che ci abitua a prendere decisioni scontate e avere una vita e obiettivi ordinari.
Certo sei anni di “prigionia” in Giappone possono sembrare duri, ma se c’è una cosa che ho imparato è che le scelte difficili ed audaci pagano infinitamente di più di quelle ordinarie.
Una cosa di cui sono orgoglioso è di non aver mai lavorato come dipendente di nessuno. La società moderna per non morire ha bisogno di imprenditori, sognatori, artisti, visionari, ed è disposta a pagare un prezzo altissimo sia in termini di successo che economici a chi ha il coraggio di essere audace.
Mosso da un’incredibile passione, hai fatto del bonsai la tua professione decidendo di restare in Giappone. Come mai questa scelta e non quella di praticare in Italia?
Da una parte c’è l’ambizione di voler competere con i migliori al mondo con l’obiettivo di superarli, dall’altra parte dopo sei anni in Giappone mi sono ambientato bene, ho fatto amicizia con molti colleghi e ogni volta che partecipo ad un evento collettivo come una mostra o un’asta di bonsai sento che c’è un posto dedicato anche a me in questa società. Tra i professionisti sono uno dei più giovani ma mi sento già benvoluto e rispettato grazie al duro lavoro svolto.
In Italia dovrei ricominciare tutto da capo, sebbene nell’ambiente sia famoso pochi mi conoscono direttamente. L’Italia potrà essere una espansione della mia professionalità ma non me la sento di buttare via ciò che ho costruito per anni per ricominciare da zero.
Come viene visto il bonsai italiano in Giappone, e cosa dovrebbe fare secondo te per poter crescere?
Il bonsaismo italiano e quello spagnolo cominciano ad essere riconosciuti in tutto il mondo come di alto livello. Per me se si vuole continuare a crescere non serve cambiare qualcosa ma mantenersi sul trend attuale che ci sta già portando a grandi risultati.
Dal mio punto di vista, una persona come te rappresenta un’incredibile risorsa per il bonsaismo italiano ed europeo. In che modo potresti migliorare il bonsai qui in Italia?
Sicuramente attraverso le attività di insegnamento, purtroppo in Italia manca una cultura approfondita del bonsai: ci si rifà ancora adesso a dei testi del secolo scorso che presentano troppe semplificazioni in campo estetico.
Porre rimedio agli equivoci anche dovuti alle traduzioni dal giapponese all’italiano è un mio obiettivo primario.
Prima di salutarci, ringraziandoti ancora una volta per la tua infinità disponibilità, desideravo porti un’ultima domanda: sappiamo che nel giardino del Maestro ti occupi della ‘preparazione’ di molti bonsai che poi verranno esposti alla kokufu-ten, la più importante mostra di bonsai giapponese – e quindi del mondo; in che maniera vengono premiati, ed in particolare, come vengono giudicati e da chi? Sarebbe questo un metodo applicabile alle nostre mostre?
Per il giudizio della Kokufu ci sono undici giudici che cambiano ogni anno (dieci che votano e uno che interviene in sostituzione affinché i giudici non valutino le proprie piante).
Si esprimono punteggi per vaso, armonia generale, chioma, tronco e radici. Questi punteggi vengono poi sommati e serviranno a determinare le piante ammesse alla mostra.
Per l’assegnazione del premio kokufu c’è un secondo scrutinio a mostra già allestita che tiene conto di tutta la presentazione compresa di tavolino ed erba di compagnia. La decisione viene presa all’unanimità sulla base di una discussione.
Sicuramente è un buon metodo per valutare una mostra, ha le sue pecche ma tendenzialmente se una pianta non merita non vince.
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