L’adesione alle pratiche del bonsaista sembra fornire un possibile orientamento dello stesso nell’approccio estetico all’albero che educa. Ma ancora una volta è necessario abbandonare la confortante categorizzazione dell’arte autre perché diverse sono le ambizioni semantiche e gli obiettivi rappresentativi del bonsaista.
L’esercizio esaltante della manualità che impone trasmutazioni, in un’ottica del fare puramente estetizzante, in cui l’elemento primario, il legno, detta le regole senza apparire in ruoli secondari rappresentato mimeticamente dalla struttura dell’albero, è solo un aspetto del bonsai. E per questo non va esagerato ed esasperato.
In realtà il godimento del fare si trasforma in desiderio di realizzare, di richiamare dai cassetti reconditi della memoria visiva, le forme degli alberi e la loro struttura plasmata dalla natura. Attenendosi rigorosamente al reale, senza violare con forzature abnormi la natura stessa dell’albero.
La questione ambientale è una problematica fortemente sentita dal bonsaista, che vive consapevolmente la straziante realtà della distruzione del paesaggio, l’inquinamento, l’indifferenza, come un dolore acuto e persistente che non si lenisce. Un’amara riflessione sulle mutate condizioni di quello stesso paesaggio che altrove è rappresentato nella sua originaria bellezza.
I risultati degli abusi e degli oltraggi che la natura subisce appaiono nella linea dell’orizzonte come pesanti macigni, forme che inquietano il ricordo. E questo è il motivo della battaglia che conduco perché si metta fine allo scempio e si limitino gli abusi che gli espianti stanno provocando, e non solo in Italia.
Trovando sfogo nella dimensione puramente percettiva e creativa, il bonsaista supera l’avversione verso dati di realtà ormai intollerabili. Egli plasma l’albero trasformandolo secondo il proprio progetto, dandogli una forma nuova, imponendogli nuova energia, facendolo uscire da quell’anonimato finora vissuto. E nella ricchezza dei significati seppur sofisticati e ricercati, il bonsai deve rimanere negli ambiti di un’opera d’arte povera come il legno che la compone, il filo di metallo che guida l’orientamento dei rami e le forbici che modellano la vegetazione.
I giovani, nella loro smania esibizionistica, nella loro fretta di apprendere e superare, nel loro bruciare i tempi… dimenticano di apprendere la consapevolezza del valore umano di ciò che fanno, e soprattutto di non essere troppo attaccati ai risultati (l’equazione spesso applicata è: risultati strabilianti ed appariscenti = esemplare bonsai). Il bonsai trova la sua massima espressione nella semplicità.
Il ricorso sistematico e spesso abusato di tutti quegli attrezzi e marchingegni atti a lavorare la legna di un albero rimanda ad una idea del bonsai come alchimia e pertanto travisata e allontana dalla purezza delle origini stesse.
Trasmutare la naturale forma di un tronco in un moncone assurdamente lavorato, fare sopravvivere ai limiti stessi della sopravvivenza una piccola parte della pianta per stupire, per stimolare sensazioni, emozioni, sentimenti, idee in un “sublimato” materico di pura possanza visuale è prassi che sta prendendo pericolosamente piede e che sta valicando i limiti di quella che può essere una ideazione artistica di forte impianto gnoseologico, il cui iter peraltro mai diverge da una forte e sperimentata manualità di respiro altamente creativo.
In questi ambiti il bonsaista altro non deve fare che ricondurre il suo percorso in un ambito di ricerca “filosofale” intesa come rispetto puro dell’essenza stessa del bonsai, ove la tecnica, con tutte le sue declinazioni più o meno complesse e giustificate, si rende “instrumentum” prioritario ai fini del raggiungimento di più profondi gradi di superiore conoscenza.
Un incedere sofferto, quello del bonsaista, empiricamente costellato di innumerevoli, ripetute prove e tentativi, nel quale l’urgenza d’espressione – sottesa all’ossessivo fare artistico – non deve sfuggire in alcun modo (pur nell’implicita casualità della metodica adottata) ad un ideale estetico in cui l’autore non deve sottomettere l’albero né deve violentare ed esasperare l’essenza stessa. L’idea del bonsai, dunque, guida il progetto architettandone le modalità di esecuzione secondo una griglia aprioristica ben forte e assai chiara, e ciò non di meno esente da sclerotiche esagerazioni.
Il bonsaista “demiurgo” crea ma ha la responsabilità enorme di lavorare con una materia viva, non inerte, e con le sue alchimie pone in essere una ideazione profondamente meditata attraverso stadi di raffinati interventi, poi tradotti – con coerenza rigorosa – in risultati apprezzabili.
Il bonsaista non cerca risultati clamorosi per placare la propria smania esibizionistica ed autocelebrativa, ma lavora l’albero nella propria intimità, senza deliri d’onnipotenza, senza interventi che si traducano in altrettanti sfoghi compulsivi estetico-entusiastici di violenza sulla Natura, ma mediante una manualità accorta e sofferta, che nel suo incedere sperimentale esprima il bisogno e l’esigenza di filtrare e moderare il tumulto degli impulsi sensitivo-emozionali pericolosi nella loro esagerazione.
Per questo ci schieriamo. Non siamo proclivi agli entusiasmi che più infervorano i giovani che vogliono lasciarsi andare, esagerando, sulla scia di qualche maestro orientale, e che così facendo deformano la purezza e l’essenza del bonsai stesso.
A noi basta vedere con orrore le stimmate inguaribili e le ignobili ferite inferte dall’uomo alla natura. Il bonsai è arte, è passione, è cultura, non è un quadro dove il pittore d’avanguardia si può permettere il lusso di fare tutte le sperimentazioni che vuole a scapito soltanto di un pezzo di tela. Tutto questo si potrebbe tramutare, con l’assuefazione di visioni talmente ed innaturalmente esagerate, in un “affaticamento estetico” dannoso all’immagine del bonsai.
Il bonsai, con una “storia” lunga parecchi secoli, non implica alcun presunto asservimento modaiolo a tendenze e orientamenti dominanti, bensì un’attenta esplorazione – da parte dei bonsaisti – di quegli alvei produttivi, al cui interno è possibile ancor oggi fare sperimentazioni d’ogni sorta, sì da consentire ulteriori e nuove estensioni delle possibilità creative insite nel bonsai.
Un interrogativo mai risolto e sempre dibattuto del bonsai riguarda il problema di come sia conciliabile artificiosità e naturalità, di come possano essere presenti al contempo interventi tecnici sulla natura e libere espressioni della natura. Apparentemente non vi è nulla di più artificiale quando si pota un ramo o si indirizza con il filo di metallo, ma nulla appare più naturale di un bonsai impostato.
È il conflitto fra arte e natura. Compito del bonsaista è anche quello di conciliare arte e natura: il bonsai è dotato di artificiosità tanto quanto ogni altra forma d’arte che si prefigga di evidenziare i caratteri stessi della Natura.
Posto il fatto che consideriamo l’albero “materia”, compito del bonsaista non è quello di imporre la forma, ma di assecondare la materia secondo la propria natura e tendenza nel rispetto totale della fisiologia. È a questo punto che il confine diviene impalpabile: fino a che punto deve prevalere la volontà del bonsaista, quando il suo intervento deve cessare o limitarsi?
La figura ed il ruolo del bonsaista devono essere necessariamente limitati, ridimensionati. Il progetto che esso redige deve avere i limiti che la materia vivente esige. La presunzione di volere trasformare e stravolgere a tutti i costi la natura di un albero non si conciliano con l’essenza del bonsai.
Le nuove generazioni di appassionati dimenticano che quella del bonsai è una delle “Vie” delle arti orientali che contemplano la realizzazione dell’opera dove la presenza dell’artista non risulti prepotente e preponderante. Lo stile nasce quando il bello riporta vittoria sull’immane (inteso qui come smisurato, esagerato, esasperato, estremizzato).
Calma è la bellezza, ma carica al contempo di tensione, un punto d’attrazione intorno a cui gravita un vortice. La bellezza risplende negli estremi non violati, in questo senso lo stile è valore, virtus, areté: è soprattutto norma e rispetto verso la natura poiché quel che la natura realizza è guadagnato attraverso terribili sconfitte.
Ciò che qui propongo è pertanto un’etica del prodotto finito come capacità di comprendersi a partire dalla consapevolezza della propria naturale finitudine.
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