Il nome di Daniela Schifano è da anni sinonimo di suiseki di altissimo livello, oltre che di competenza, studio e dedizione verso una pratica di cui ne ha carpito il vero significato. Tutte le volte che ho potuto ammirare dal vivo le sue esposizioni, l’unica parola che sono riuscito a dire è ‘poesia’, per quanto sono raffinati ed evocativi i suoi allestimenti. Decennale è l’amicizia che mi lega a Daniela, e paradossalmente è stata proprio questa la difficoltà maggiore nell’approcciare a questa intervista, perché conoscendola sono dovuto giungere ad una sintesi tra le centinaia di possibili domande che le avrei potuto porre.
Spero d’essere riuscito ad essere stato il più oggettivo e distaccato possibile così da poter restituire un quadro tanto obiettivo quanto reale di una persona che già incarna il futuro del suisekismo italiano ed internazionale. Ed ora, come sempre… buona lettura.
Daniela ti andrebbe di raccontarci com’è iniziata la tua passione per il suiseki?
Per caso, solo per caso. Nel dicembre 2004 comprai in un vivaio di quartiere un boschetto di olmi, chiesi come lo dovevo tenere e mi fu risposto: ”protetto in casa perché fa troppo freddo”. Non ne sapevo nulla di bonsai, quindi seguii le istruzioni e il poveretto a Natale aveva già messo tutte le foglie.
Nonostante le mie cure, la piantina non stava bene, quindi a maggio 2005 acquistai un libro italiano sul bonsai, dove c’era un intero capitolo dedicato ai suiseki, una decina di pagine corredate delle fotografie di palombini italiani, delle collezioni dei più famosi appassionati italiani, come Queirolo, Attinà, Schenone, Padrini. Rimasi letteralmente fulminata. Già ad agosto cercavo pietre in Sicilia e a settembre in Liguria, in occasione di un Congresso IBS, dove conobbi personalmente tutti quei grandi nomi del libro. Ad ottobre infine mi recai al Congresso AIAS, mi iscrissi all’Associazione, certa che era nata una passione che richiedeva però studio e applicazione.
L’anno successivo, nel 2006, partecipai al mio primo congresso AIAS, a Firenze, e uno dei soci più importanti, Claudio Villa, vincitore di quella edizione, mi disse di portare pietre migliori, l’anno successivo. Invece di deprimermi, fu una sferzata di consapevolezza: Claudio aveva ragione, dovevo migliorare e portare alle mostre pietre degne di essere definite ‘suiseki’, non solo pietre che avevo trovato e amato.
Per la cronaca, per la mia forestina fu letale quel primo inverno in casa: l’aver messo le foglie così prematuramente rese impossibile rinvasarla in inverno, la costrinse ad un anno di stenti in una terra e in vaso sbagliati, indebolì la pianta, e l’anno successivo il rinvaso non fu sufficiente a salvarla. Decisi quindi di frequentare un corso bonsai a Roma, dove compresi però che il bonsai non era un’attività per me, ma questa è un’altra storia.
Comunque, se ne devo trarre un insegnamento, dagli insuccessi deve sempre nascere una presa di coscienza, un guardare dentro di noi, senza veli e con molta autocritica.
Cos’è per te il suiseki? Un semplice hobby, una pratica o cosa?
Mi piacerebbe poterla definire una Via, nel significato giapponese, cioè un percorso atto a migliorare noi stessi, più che a raggiungere un risultato: perseguire armonia, rispetto, purezza, distacco e tranquillità.
Il suiseki a livello personale mi ha insegnato molto, ad esempio la pazienza, ma percorrere una Via, sempre in senso giapponese, prevede di far parte di una Scuola, di avere un Maestro, di far parte di un contesto dove si insegna e si impara la ‘tecnica’ al solo fine di sviluppare la personalità dell’allievo.
In Giappone il suiseki non ha ‘Scuole’, nel senso che è considerato un hobby, da interpretare in modo molto libero e personale, piuttosto esso viene praticato all’interno di associazioni locali, che si danno regole e consuetudini.
Per me è forse qualcosa di più di un hobby, perché dedico al suiseki molto più tempo, forza di volontà e risorse, economiche e mentali, di quante si dedichino a un passatempo.
È sicuramente una Passione, che mi riempie ogni giornata, che non nasce da un obbligo, che mi dà più gioia di quanta fatica serva per portarla avanti, che in definitiva mi nutre. Ma la differenza tra hobby e passione è molto personale, a volte diventa ossessione, ma in questo caso viene a mancare la componente ‘gioia’.
Come afferma il mio amico Nomura, per me il suiseki è “un hobby globale, che trova il suo spazio nel cuore delle persone e nella loro vita quotidiana”. È globale perché richiede di entrare in molti mondi: dalla poesia alla pittura, dalla calligrafia alla cerimonia del tè, per non parlare della geologia e della Natura.
Mi rendo conto che col passare del tempo si utilizza sempre più il termine “pietre” e sempre meno quello di “suiseki”, come a volerne generalizzare e rendere più labile la sua definizione. A cosa porterà secondo te questa strada?
A nulla di buono, temo. È in atto un fenomeno ben preciso, quello di disconoscere l’origine giapponese del suiseki e di utilizzare questo termine in senso generico, da applicare ad ogni sasso che ci piace.
Quando questo si diffuse in Italia, negli anni ’80, in realtà i primi suisekisti italiani, che ho citato prima, si sforzarono di studiare e di diffondere ogni singola affermazione proveniente dal lontano Giappone.
Furono invitate in Italia personalità di spicco del suiseki giapponese, come Arishige Matsuura, allora presidente della Nippon Suiseki Association, di cui conservo le trascrizioni delle conferenze. Erano gli italiani a cercare di adeguarsi a quelle che leggevamo come ‘regole’, nella estetica delle pietre, nella costruzione dei daiza, nell’esposizione, nella difficile ricerca degli elementi di accompagnamento (tavoli, kakejiku, tenpai). Per fare questo, si studiava, si migliorava, si sbagliava, ci si doveva per forza avvicinare al mondo tradizionale giapponese e a una cultura molto diversa dalla nostra.
Da qualche anno, invece, sembra quasi che questa fase iniziale di studio e di apprendimento sia diventata un peso inutile, perché con sempre maggiore facilità ci vengono proposti altri esempi, più semplici da seguire, che definiscono ‘suiseki’ pietre che per forma, estetica, colori e spirito non lo sono.
Tutto è ‘suiseki’, in realtà non è così, è solo una scorciatoia; ritengo lecito, come scelta personale, dedicarsi e appassionarsi a qualcosa di diverso, ma sarebbe corretto riconoscere le diversità, anche culturali, tra un suiseki e una viewing stone, termine al momento molto di moda, e che per i più sembra il contenitore più generoso e omnicomprensivo… ma chi sa che una viewing stone, negli USA dove nasce, è una pietra che può essere tagliata?
È come se al ristorante ordinassimo una carbonara e ci portassero un tiramisù, per carità buonissimo, con la motivazione che ‘per il nostro cuoco questa è la vera carbonara’… da romana dissento.
Quante contraddizioni! L’apprezzamento delle pietre, in Oriente, è una faccenda culturale, intima, legata alle proprie credenze e tradizioni, alle proprie divinità e credi religiosi, a antichi poeti e cerimonie, al sentirsi un tutt’uno con la Natura.
Se in Occidente si vuole qualcosa di diverso, ben venga, anche noi abbiamo una cultura e una tradizione a cui attingere, quindi il primo passo è iniziare a dare un nome e a codificare regole seriamente, così come hanno fatto gli americani fin dal 1991. Io resterò fedele… alla carbonara.
Nel panorama italiano ed internazionale sei riconosciuta come un’importante suisekista particolarmente attenta all’allestimento. Quanto è importante secondo te il tema dell’esposizione nella pratica del suiseki?
Molto, almeno per me, ma è una questione molto personale. Innanzitutto l’allestimento inizia da un buon daiza, in alternativa un buon vassoio e una buona sabbia, e da un buon tavolo, per rispetto della pietra.
Se in Giappone non esistono scuole di suiseki, in realtà esistono scuole di esposizione. Forse l’unica conosciuta in Italia è il Keidō, perché sono stati realizzati libri specifici, di cui uno anche con i testi in inglese, che li ha resi più comprensibili. In parole povere, è l’unica scuola di esposizione di cui conosciamo gli scopi, le regole e di cui abbiamo esempi da studiare.
Non tutti in Giappone praticano il Keidō, quindi vediamo mostre giapponesi con esposizioni con e senza kakejiku, con e senza tavoli, con e senza oggetti di accompagnamento, segno che sull’argomento ci sono molti approcci e tendenze. Quello che io noto, però, è che in alcuni casi io vedo una esibizione, in altri io vedo una esposizione.
‘Esibire’ un bel suiseki è un sottoporre alla vista e all’attenzione altrui una pietra in sé e di per sé, per un suo apprezzamento quasi come fosse un oggetto da museo.
‘Esporre’ un suiseki, con elementi che ‘accompagnano’ la pietra in uno dei tanti modi possibili per esso, selezionati dal suo proprietario, allarga l’apprezzamento ad un mondo che va oltre, che può coinvolgerci, emotivamente e culturalmente, in una stagione, in un luogo, in un verso poetico, in un monito etico, in un ricordo.
La pietra diventa veicolo di noi che abbiamo preparato quell’allestimento, seguendo il suggerimento dato dalla nostra esperienza e che cerchiamo di far diventare spunto per tutti. È un approccio difficile e complesso da realizzare, ma anche creativo e ricco di soddisfazioni. Si deve imparare un linguaggio con cui veicolare un messaggio, imparare a modulare gli oggetti, selezionarli con cura, in armonia e senza prevaricazioni.
È un percorso che mi entusiasma, mentre lo preparo anche per mesi prima di una mostra, che a volte inizia dal nome poetico del suiseki, coniato da me o dal precedente proprietario della pietra. Attenzione, il suiseki deve restare il protagonista indiscusso della scena, noi il suo discreto portavoce.
A corollario di un mio precedente articolo, ho riportato una frase – per me particolarmente illuminante – di Masayuki Nomura: “senza esposizione un suiseki è solo una pietra morta”. Avendolo necessariamente decontestualizzato, puoi spiegarci meglio questo suo pensiero?
Questa domanda si ricollega alla precedente e la completa. Masayuki Nomura è un interprete del Keidō, fu studente di Yokoyama Iwao, conosciuto con il soprannome di Uraku, uno dei più brillanti seguaci di Ichiu Katayama, il fondatore del Keidō. Da pochi mesi, è stato nominato iemoto della scuola Keidō il famoso Kunio Kobayashi, segno che la scuola è ancora viva e vivace.
Come seguace del Keidō, Nomura san vuole affermare, con una asserzione che sembra contrastante con la realtà fisica, che una pietra è viva, se esposta correttamente. Siamo abituati a pensare alla pietra come materiale inerte, senza vita, ben diverso da un bonsai che esprime fisiologicamente la stagione in cui vive.
Un bonsai non può fare altrimenti: diceva Katayama che «esso è vivo, si modifica ogni giorno presentando completamente la stagione con la sua crescita, i fiori, i frutti, il gelo, … la sua è una bellezza evidente.»
La bellezza di un suiseki è al contrario poco appariscente e per cogliere ogni elemento della natura in una pietra è necessario allora curarne l’allestimento, attraverso l’utilizzo di oggetti di accompagnamento, selezionati con cura e sensibilità, che veicolano un mondo fremente di vita, dove nello spazio finito del tokonoma si rappresenta un intero e infinito universo immaginario.
Nomura san è uno dei tuoi tanti conoscenti giapponesi coi quali discuti, approfondisci e svisceri i molteplici aspetti del suiseki. Chi sono i suisekisti che maggiormente hanno influenzato la tua comprensione di questa pratica?
Ce ne sono molti, alcuni hanno affinato il mio gusto, altri mi hanno fornito le giuste chiavi di lettura. Parliamo prima delle preferenze estetiche: non tutte le pietre ci piacciono, non tutte le pietre ci toccano nel profondo.
È un percorso che fanno tutti, i giapponesi addirittura affermano che “si comincia dalla Toyama, si finisce con la Toyama”. Per Toyama si intende una montagna a veduta distante, la prima forma che in genere affascina e colpisce il principiante, che poi sarà portato ad esplorare altre tipologie di pietre, per ritornare infine alla Montagna, arricchito e con una comprensione maggiore.
Io ho capito presto, ammirando le pietre di collezionisti famosi, quello che più mi riguardava, e mi sono allontanata dal palombino italiano, ad esempio, ma anche dalle pietre giapponesi che gli assomigliano, come le pietre Furuya o Seigaku.
In esse vedo tutto e subito, mi annoiano presto. Al contrario, le pietre di Martin Pauli, famoso collezionista ed esperto svizzero, mi hanno sempre strappato un oh di meraviglia quasi fanciullesca, per la loro apparente semplicità dietro cui percepivo un mondo. Ho quindi iniziato a selezionare e cercare pietre dalle forme molto semplici.
Credo sia conosciuta una mia pietra che chiamavo tra gli amici ‘la frittella’: in essa non c’era quasi nulla e mi permetteva di immaginare molto. In altre parole, ho capito qualcosa di me stessa e, forse, del suiseki: per me l’emozione non passa attraverso la somiglianza ‘realistica’ ma attraverso il ‘non detto’, che mi permette di completare i vuoti.
Uno dei blog che negli anni 2000 ho più seguito e mi ha influenzato è quello curato da Sam Edge, dove trovavo non solo le belle pietre della sua collezione ma soprattutto immagini ed esperienze vissute in Giappone, da cui ho iniziato a comprendere che tutto iniziava lì.
È stato un forte stimolo, per me, leggere i suoi post, conoscere i nomi dei famosi daiza-maker e dei produttori di doban, mi hanno fatto percepire il Giappone vicino, vivace, amico, ma soprattutto la vera fonte di risposte.
Da Sam ho anche imparato l’importanza dei libri, di non semplice reperimento e che presentano la difficoltà della lingua. Ce ne sono molti, però, con i testi in inglese e ho iniziato a cercarli e ad acquistarli. Con lui sono in contatto quasi giornalmente, in uno scambio continuo di informazioni e consigli.
A quei tempi seguivo anche il blog di Mas Nakajima, giapponese di nascita ma californiano di adozione, grande amico di Sam, un grande artista purtroppo deceduto anzitempo.
Le pietre di Mas erano contemporaneamente giapponesi (nell’anima) ma anche americane: erano quello che era Mas. È stato anche l’unico a riuscire, con successo, nella via della esposizione ‘contemporanea’ dei suiseki, dove la tradizione ne resta la base imprescindibile.
Rokumei Nomura san è stato un amico prezioso e raro: parlando in inglese con lui ho avuto sempre tante risposte e egli ha reso possibile la mia prima partecipazione alla JSE… ormai il Giappone era vicinissimo.
Rokumei è metafora di ‘condivisione’ da una antica poesia cinese, è il bramito del cervo che chiama i compagni per mangiare insieme il sedano dei campi.
“I cervi si chiamano l’un l’altro con un suono lieto, mangiando l’erba dei campi”. Questo è un verso di una poesia intitolata “Lù Míng” (I richiami dei cervi), tratta dal libro cinese di poesie classiche “Shi Jing” (Libro dei canti) e descrive il modo in cui i cervi, avendo scoperto il cibo, non lo tengono per sé ma lo condividono con i loro amici. La poesia prosegue poi descrivendo come gli ospiti speciali debbano essere intrattenuti con cibo e musica.
Giappone. Socia della NSA (Nippon Suiseki Association), unica italiana ad aver partecipato a 9 edizioni su 10 della JSE (Japan Suiseki Exhibition), di cui 8 come espositore. Primati a parte, hai fatto da apripista ad altri suisekisti italiani che successivamente hanno partecipato alla JSE, ed al di là della sua portata storica, hai di fatto posto l’Italia sotto i riflettori internazionali. Quanto importante è stata per te questa prolungata esperienza, e com’è visto il suisekismo italiano nel mondo?
Mi sento un po’ in colpa: quando vado in Giappone non faccio la turista, ma dedico quasi tutto il mio tempo al suiseki. Ovviamente, il motivo primario che mi porta a Tokyo è esporre alla mostra Japan Suiseki Exhibition, impegno che comincia molti mesi prima, con la scelta del suiseki da proporre al Board NSA, l’associazione nazionale che organizza l’evento.
La pietra deve essere in Giappone entro settembre/ottobre, sia per valutare il suiseki de visu sia per avere il tempo di produrre il progetto grafico del Catalogo (fotografie, testi a commento tradotti in inglese, stampa).
Non ci sono premi, non è una competizione, e questo aspetto mi è sempre piaciuto molto. Non è permesso a noi espositori partecipare alla fase di allestimento, curata dal Board NSA e dai loro assistenti, quindi il momento dell’inaugurazione è sempre emozionante. In genere, ci sono circa 150 suiseki suddivisi in quattro sale, la maggior parte senza allestimento stagionale, sicuramente senza piante di accompagnamento (l’acqua a quel piano del Museo non è ammessa, per ragioni di sicurezza), mentre circa una trentina di suiseki sono esposti in uno spazio che per misure e dignità potremmo definire un tokonoma, dove è presente anche un kakejiku e a volte un tenpai.
I riferimenti stagionali non sono limitati al mese di febbraio, periodo in cui si svolge la mostra, ma sono allargati a tutte le stagioni, ma anche temi mitici, poetici, religiosi o legati a festività, come la celebrazione del primo dell’anno.
Se non fossi stata lì, forse non avrei capito molte cose, quindi è importante non solo partecipare ma anche essere presente e mettere le basi per un dialogo costruttivo. Ad esempio, spesso mi avvalgo dell’aiuto di una interprete, dal giapponese all’italiano, per essere sicura di capire e di essere capita.
Quest’anno sono riuscita anche a esporre nel tokonoma, progetto che rimandavo per rispetto e umiltà. La richiesta è venuta dal Giappone, riguardava una esposizione da me realizzata nel 2016 a Roma, nell’ambito del Congresso Internazionale Sakka Ten, per l’incontro didattico con il maestro giapponese nostro ospite, Kunio Kobayashi.
Sinceramente ero perplessa… si trattava di una pietra italiana, esposta su un tavolo italiano: avrebbero entrambi passato la selezione? Il kakejiku da me utilizzato sarebbe stato ritenuto autentico e all’altezza, per qualità e antichità? A fine settembre sono stata informata che la mia proposta espositiva aveva passato la selezione e che era stata fotografata per il Catalogo in uno dei tokonoma del museo Shunkaen di Kunyo Kobayashi.
Questa mia storia personale racconta quale sia l’approccio, anche dei grandi Maestri giapponesi, nei confronti della comunità internazionale del suiseki: se nella prima edizione gli stranieri potevano esporre solo pietre giapponesi delle collezioni personali, fin dalla seconda edizione essi hanno potuto presentare anche pietre dei paesi di origine, allo scopo di riconoscere e diffondere il suiseki come viene praticato al di fuori del Giappone.
In nove edizioni, anno dopo anno, gli appassionati giapponesi, visitando la mostra, sono diventati consapevoli che gli stranieri sono eccellenti collezionisti di pietre giapponesi e che il loro percorso formativo ha permesso loro di selezionare ottime pietre anche dei paesi di origine.
In altri termini, sono fieri che il suiseki di qualità si diffonda nel mondo e sono stati pronti a inglobare, nella mostra più importante giapponese, anche il materiale straniero, che ha suscitato meraviglia, curiosità e rispetto, non perché diverso ma in quanto portatore degli stessi principi estetici del suiseki tradizionale giapponese.
Con questi presupposti, mi sembra anacronistico che in Italia si persegua e si chieda a gran voce il percorso opposto: praticare il suiseki con un senso di esclusiva territoriale e culturale. È ironico, a pensarci bene.
Oltre a visitare la mostra, e con 150 pietre il tempo ci vuole, cerco di organizzare prima della partenza visite e incontri. È per me una occasione di vedere di persona le pietre, imparare a riconoscere il loro luogo di origine, insomma fare una esperienza sul campo che mi nutrirà per un anno. Inoltre, è a portata di mano quel mondo difficile e raro degli oggetti di accompagnamento: tavoli, suiban, doban, kakejiku, anche piccole piantine di accompagnamento… sembra il paese dei balocchi.
A casa di un collezionista, tra le pietre coltivate all’esterno (2016) — Alla ricerca di pietre sul fiume Tama
Non è importante fare acquisti, perché resta una questione quasi di fortuna e sicuramente di possibilità economiche, ma è importante guardare e valutare anche quello che non si comprerà, per sapere quello che è da cercare, in termini di qualità. E poi ci sono le cene fra amici provenienti da tutto il mondo, gli incontri imprevisti, i regali, la gita sul Tama, un amico che ti apre la porta della sua casa e della sua collezione. È una esperienza diretta e formativa, come niente altro.
Non manco mai di visitare i giardini dei Maestri, dove sono sempre allestiti con gusto e grande qualità i tokonoma: in queste occasioni si chiude il cerchio. Lo studio e l’esperienza diretta si toccano, osservo senza giudicare perché quello che mi arriva è il senso ultimo, la sintesi.
Quest’anno hai già partecipato a due fondamentali manifestazioni, una a ridosso dell’altra: la JSE in Giappone ed il Trophy in Belgio. Per conto della Nippon Bonsai Sakka Kyookai Europe sei stata la curatrice dell’allestimento dei suiseki. Quanto è stato complesso scegliere i vari elementi espositivi per creare un allestimento armonioso e coerente con la stagione in atto?
Non è stato semplice, ma non ero da sola! E come sempre è stato anche divertente e stimolante. C’erano molti aspetti da valutare contemporaneamente: i suiseki non dovevano essere espressione di una stagionalità marcata diversa da quella della mostra, dovevano essere il più possibile diversificati per classificazione, in modo da presentare ai Visitatori una varietà significativa e armoniosa. Insomma, non solo montagne!
La seconda problematica da affrontare è stato il periodo stagionale: in bilico fra qualche colpo di coda dell’inverno e i primi segnali della primavera.
Si è scelto di rappresentare, anche attraverso l’utilizzo dei kakejiku, entrambi i momenti, evitando anche in questo caso ripetizioni: dall’ultima neve sulla cima della montagna a una piantina di bucaneve, dall’uguisu alla fioritura del pruno, che nella poesia classica giapponese simboleggiano entrambi l’inizio della primavera.
Tutti gli elementi, anche grazie allo spirito di collaborazione tra i soci, che è uno dei principi fondanti della Nippon Bonsai Sakka Kyookai Europe, hanno contribuito a proporre delle esposizioni in linea con lo spirito tradizionale giapponese. Il tutto è stato realizzato ‘al buio’: solo in mostra abbiamo potuto vedere realizzato quanto precedentemente pianificato.
Il tuo lavoro costante di divulgazione ti ha portato, tra l’altro, a realizzare due siti incentrati sul suiseki e sui vari aspetti della cultura giapponese: www.italiansuiseki.it e www.shakkei.it. Ci puoi parlare di questi tuoi progetti e delle loro finalità?
Il mio lavoro nel campo dell’informatica mi ha aiutato ad affrontare i problemi tecnici senza grandi ambasce, in verità, e poiché da sempre amo divulgare il suiseki sfruttare Internet a questo scopo è stato quasi automatico.
Il primo sito web è organizzato come un sito didattico specifico sul suiseki, dove per un periodo ho anche pubblicato resoconti dettagliati delle mostre visitate in Italia, nonché le collezioni dei suiseki di miei compagni di percorso.
Il sito Shakkei ha l’anima del blog dove pubblicare in libertà pensieri e riflessioni sparse, non solo mie e non solo sul suiseki. Shakkei si avvale del contributo di molti, in linea con la sua filosofia celata nel nome stesso: prendere in prestito, per inglobare invece di erigere muri, anche culturali. In questo senso forse è vero quello che dicono i miei detrattori: ho un po’ gli occhi a mandorla, a pensarci bene.
Nel ringraziarti sinceramente per la tua disponibilità, ti pongo un’ultima domanda: cosa c’è nel futuro della suisekista Daniela?
A breve mi attende un onore e un onere: essere giudice per il suiseki ad un evento nazionale importante come il prossimo Congresso U.B.I. Ne accetto la responsabilità, consapevole che io, con le mie competenze e la mia etica, sarò sotto esame più dei suiseki in concorso.
Anche nella mia vita personale è in arrivo un grande cambiamento: la pensione. Avrò più tempo libero e spero di portare a termine alcuni progetti per i quali proprio il tempo sembra non bastare mai.
Sono ancora idee vaghe ma divulgare, scrivere e collaborare resteranno le basi della mia attività nel mondo del suiseki giapponese. Il presupposto ovviamente è continuare a studiare!