Kintsugi è una parola molto semplice, composta da kin – “oro”, e tsugi – “unione”. Quindi, letteralmente, “unione d’oro”. Un significato che rimanda subito ad un significato nobile.
Per la dottrina buddista giapponese l’oro è il metallo che rappresenta la purificazione, considerato elemento in grado di allontanare le negatività.
Kintsugi, un’antica abilità che affonda le proprie radici nel XV secolo, un’era particolarmente prospera per l’arte nipponica, durante la quale si è affermata una nuova estetica con una tematica preminente: la reincarnazione. ll procedimento consiste nell’utilizzo di una particolare vernice dorata cui viene unito un collante, per tenere insieme le parti di un oggetto di ceramica rotto e dargli così una nuova vita.
Il Kintsugi tramite l’uso dell’oro che, oltre a restituire interezza a porcellane danneggiate, si pone anche come espressione simbolica di ripristino della bellezza. Ecco perché questa pratica così affascinante non rappresenta soltanto una particolarissima tecnica millenaria, ma è anche custode di simboli e metafore di vita.
Nella vita comune, a qualunque persona sarà certamente capitato di rompere qualcosa accidentalmente: una tazza, una scodella, un piatto e buttarli via, seppur dispiaciuti per la perdita. Siamo influenzati dalla frenesia dei tempi moderni, che ci porta sempre più spesso a pensare che un oggetto rotto debba necessariamente essere sostituito.
Ma il “nuovo” vale più del “vecchio”? Se lo guardiamo in prospettiva, è un procedimento facilmente riconducibile alla nostra esistenza. Il kintsugi è una metafora da applicare alla vita reale per guarire le ferite dell’anima e dare risalto alle cicatrici che ci portiamo addosso e dalle quali far scaturire nuova forza, nuova energia.
Tornando all’antica tecnica, l’oro diventa pregiato materiale adesivo: grazie a mani sapienti che lo ammaestrano e indirizzano, s’insinua nelle crepe sostituendo la parte mancante ed evidenzia i difetti anziché nasconderli, creando così un’opera d’arte unica nel suo genere.
Un vaso aggiustato mostra tanto la fragilità quanto la forza di resistere. In ciò si cela la vera bellezza. Guardando una ciotola o un piatto andato in frantumi, possiamo capire meglio la natura fragile delle cose e renderci conto che il nostro mondo, la nostra vita, non è altro che un assemblaggio di pezzi, grandi o piccoli. Di cose, di eventi, di persone.
Tenerli insieme è compito nostro. Dopo la fine di una relazione o la perdita di una persona cara, spesso siamo soliti definirci con un’immagine: “il cuore a pezzi”. Lo scopo del kintsugi è proprio aiutarci a trovare la forza di diventare artigiani di noi stessi. Curare le ferite del cuore, riempirle d’oro e lasciare che tornino a brillare.
La filosofia dietro al kintsugi condivide molti aspetti con quella del wabi sabi e della sua visione di transitorietà delle cose, basata sull’accettazione dell’imperfetto e sulla consapevolezza dell’inevitabilità dei cambiamenti. Si parla infatti di una “bellezza imperfetta, impermanente e incompleta”, immagine che ha un’ottima coesione con l’idea della riparazione con l’oro e l’evidenza di tale intervento.
ll fine di tale pratica è sempre quello di valorizzare l’imperfezione: il risultato che si ottiene è unico e irripetibile. L’oggetto acquista quindi forza, traendo un vantaggio dall’evento negativo ed energia da ciò che l’ha danneggiato.
È questa la base del kintsugi, anche detto kintsukuroi: l’arte di ricomporre e abbellire ciò che è rotto, tanto gli oggetti quanto il nostro spirito.
Il kintsukuroi ci avverte che la fragilità è utile alla crescita e che non deve spaventarci. Le esperienze dolorose sono espedienti per il rafforzamento dell’anima: non ci indeboliscono, bensì, se comprese e assimilate a fondo, ci valorizzano, rendendoci unici e preziosi, proprio come l’oro che ripristina l’interezza del vaso frantumato o un segno sulla pelle che rende particolare e riconoscibile un corpo.
La pratica tradizionale giapponese del kintsukuroi dà vita a un modo, totalmente diverso, di guardare gli oggetti che ci circondano – così come noi stessi – rispettandone le fragilità, le cicatrici, i segni del tempo.
Accettare qualcosa (shouganai) che, per quanto faticoso o doloroso, non possiamo evitare ma, cercare di risolverlo nel miglior modo possibile e, soprattutto, accoglierlo come una preziosa lezione di vita che renderà le nostre crepe ancora più preziose.
Non siamo che il risultato delle cadute e degli ostacoli che abbiamo superato lungo il nostro personale cammino.
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One Response
Vorrei poter approfondire la tecnica pura